Sennett: beato il Paese che ha i bamboccioni - Il sociologo-star
americano, oggi a Milano, rilancia un'idea dimenticata: la collaborazione, intervista
di FRANCESCO MANACORDA, 29 /03/2012
“Collaborare non è una cosa da
fare perché siamo bravi e buoni, ma una basilare strategia di sopravvivenza che
spesso ci dimentichiamo di applicare. Anche perché, almeno fino alla crisi
finanziaria, il concetto di collaborazione è stato progressivamente distrutto
da una cultura iperliberista». Richard Sennett è quanto di più vicino esista in
natura a un socio-star. La biografia - prima violoncellista, poi dopo un
disastroso intervento alla mano la scelta della sociologia e dell’etnografia -
che s’intreccia con l’opera, la carriera a cavallo tra Usa e Gran Bretagna,
l’attenzione agli aspetti della vita quotidiana, la rivalutazione della téchne,
il «saper fare» degli antichi greci, lo rendono una lettura spesso illuminante
anche per i non addetti ai lavori. Con posizioni talvolta controcorrente. Come
quella sull’Italia, dove giudica i «bamboccioni», bloccati a casa con i
genitori ben dopo la maggiore età, non come tristi frutti di un paese
ingessato, ma come fioritura di una civiltà più solidale di quella
anglosassone. Oggi Sennett sarà a Milano, ospite della Fondazione Cariplo,
proprio sul tema «Collaborare per sopravvivere», l’argomento dell’ultimo dei
suoi quindici libri Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione
(Feltrinelli).
Collaborare per sopravvivere, è
la sua lezione. Ma in un mondo sempre più competitivo come si fa?
Collaborazione e competizione non sono nemici naturali?
«No, possono tranquillamente
coesistere. Basta pensare agli sport di squadra, dove si collabora tra gruppi
di individui per competere contro altri gruppi. Ma esiste anche un altro tipo
di coesistenza, più sottile, tra i due atteggiamenti: quello in cui si
collabora con coloro contro cui si compete per mettersi d’accordo sulle regole
del gioco. Lo fanno i bambini, proprio quando cominciano a giocare insieme, e
lo fanno anche gli adulti per motivi economici».
Un esempio?
«Pensi a un gruppo di artigiani o
di operai specializzati che lavorano insieme in una piccola azienda. Non solo
condividono fisicamente lo stesso spazio, ma riescono anche a “dividersi il
mercato”, nel senso che stabiliscono una divisione del lavoro nella quale
ciascuno occupa la sua nicchia e ciascuno evita di distruggere gli altri.
Oppure guardiamo alla Cina, dove esiste un radicato sistema di coesione
sociale, chiamato guanxi, che presuppone rapporti di competizione uniti però a
strette reti di cooperazione familiare o amicale. Il presupposto è che spesso
il trionfo del più forte è un disastro per tutti gli altri. Ma negli ultimi
anni, e specie fino alla crisi finanziaria del 2008, il liberalismo sfrenato ha
spinto verso l’idea che il vincitore prende tutto e distrugge gli avversari».
Non funziona così?
«No. Quando i concorrenti vengono
distrutti il mercato collassa nel suo insieme. C’è stato chi ha ritenuto che
l’estinzione dei rivali sia un buon modello economico. Io non lo penso. E il
problema di cui parlo nel mio libro è che ci siamo così concentrati sulla
competizione che ormai tendiamo a ignorare la collaborazione, depotenziando
questo strumento formidabile. Ci sono accordi informali che garantiscono la
collaborazione e noi siamo abituati a darli per scontati. Ma non è così: bisogna
lavorare per capire quali possono essere gli accordi migliori e come far
funzionare quelli che non decollano».
Lei sostiene il movimento Occupy
Wall Street. Non pensa che con il passare della crisi le vecchie logiche della
finanza torneranno a prevalere?
«Il problema è politico più che
economico. E’ noto che la situazione finanziaria in cui viviamo è assai
distruttiva, ma il problema è quale politica ne contrasti gli effetti. E qui si
arriva al nodo di una profonda e costante opposizione tra la sinistra sociale -
attenta all’associazionismo, orientata alla società civile - e la sinistra
politica, che invece punta solo sulla solidarietà. Io penso che dobbiamo dare
più valore alle sinistra sociale e meno a quella politica. Bisogna concentrarsi
sulla collaborazione e la società civile ed essere meno preoccupati della
solidarietà generica di cui parlano i partiti. Ripartire dal basso, dalla
cooperazione anche in ambito locale, e prendere atto che la politica a livello
nazionale non ha quasi più nulla da dire. Specie nei confronti dei giovani».
Come vede l’Italia, dove le
comunità locali sono coese, ma il senso dello Stato latita, di fronte alla
crisi ?
«In frangenti come quelli attuali
e di fronte a una grave crisi economica non avere un gran senso dello Stato non
è necessariamente un difetto. E visti da fuori devo dire che voi italiani siete
messi abbastanza bene».
Non è la percezione più diffusa
nel Paese. Perché lo pensa?
«Lo so che può sembrare strano,
visto che almeno fino a poco fa avete avuto una classe politica terribile. Ma
voi avete una società civile che ad esempio manca in Gran Bretagna. Le reti
locali e familiari sono forti, le aziende familiari restano numerose».
La famiglia conta forse fin
troppo, visto che da noi prospera il fenomeno dei «bamboccioni».
«In Gran Bretagna vivere fino a
trent’anni con la famiglia è considerato un fallimento. Oggi ha un’utilità
economica ma non un senso culturale e i giovani vivono questa esperienza come
un grande fallimento. Invece non lo è e l’Italia lo dimostra».
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