sabato 3 dicembre 2011


Avvenire.it, 3 dicembre 2011 - L'amore cristiano ha ridato grandezza e onore a ogni vita - Il «salto di qualità» da non rifare al contrario di Carlo Cardia

È difficile stabilire in quale misura la vita distribuisca agli uomini gioia e dolore, riflessione e spontaneità, interiorità e socialità. Sappiamo, però, con certezza che la vita comprende tutte queste cose e da ciascuna di esse impariamo molto, per noi stessi e per il significato dell’esistenza.

Scopriamo presto, ad esempio, che non solo il senso del limite ci conduce a Dio; spesso accade il contrario, perché la forza della giovinezza, il piegarsi sul volto piccolissimo e luminoso del figlio appena nato, l’ammirazione per il creato e l’universo, possono riempire l’animo di una gioia e di uno stupore inesprimibili che spingono a desiderare, quasi a sentire, quella dimensione del divino che attende ogni uomo al termine della sua esistenza. Ma la vita addolcisce la mente, la educa e la affina anche con la maturità, l’attenuarsi delle facoltà personali, con il dolore, la sofferenza. Perché queste negatività rivelano il posto che la gioia e la bellezza hanno nella vita, donano saggezza, spingono a solidarietà, fanno intravedere la caducità come parte integrante della dimensione terrena.

Sulla complessità dell’esistenza si cimentano da sempre religioni, filosofie e culture, si interrogano gli uomini nel loro cammino storico. Se valutiamo bene la varietà e l’intreccio di contenuti dell’esperienza umana, comprendiamo meglio come il tentativo di allontanare da noi ogni passività e fruire della vita solo finché è gratificante – la pratica del «suicidio assistito», di cui si parla in questi giorni, altro non è che una sua manifestazione – appare come una risposta spezzata, respingente e disperata, della realtà più autentica dell’esistenza. Al di là delle questioni giuridiche, che pure chiamano in causa le scelte della società e dell’ordinamento, è bene ricordare che il cristianesimo sin dagli inizi ha immesso nella storia un amore per la vita che è giunta a farla accettare tutta intera, a lottare contro il dolore senza disprezzarlo, perfino a motivare eroismi ed eroi che si sacrificano per la verità e per la libertà e dignità degli altri. In questo amore per la vita, anche la sofferenza, il dolore, le amputazioni, la vecchiaia, trovano spazio e significato, in se stessi e in ciò che valgono per gli altri, familiari, amici, conoscenti, che ci conoscono e ci sono vicini.

Una visione umiliante e piatta dell’uomo può rovesciare la gerarchia dei valori, ponendo al vertice il piacere e la soddisfazione individuale, negando legittimità al dolore e alle privazioni, fino al punto di rifiutare la vita appena concepita, sopprimere quella non perfetta perché malata o deforme, porre fine alla propria se la spinta vitale si è stemperata, come si faceva in alcuni luoghi nell’antichità. Ma il salto di qualità dell’amore cristiano ha ridato onore e grandezza a ogni vita, a ogni segmento dell’esistenza, ha proclamato che l’uomo è davvero fatto a somiglianza di Dio, cambiando il registro del pensiero e dell’azione in ogni parte del mondo. Ne sono derivati valori etici e impegno a servizio dell’umanità intera, la preziosità di tutti gli esseri, i più piccoli e gli anziani, i malati e i meno fortunati, chiunque ci chieda di stargli vicino. Per questa ragione la fede cristiana è considerata la fede che alimenta l’amore per la vita, di chiunque e in ogni suo istante.

C’è chi vuole tornare indietro rispetto a questo salto di qualità che ha cambiato il mondo, chi vuole aprire una pagina opaca che stabilisca quando sia giusto vivere e quando morire, e lo vuol fare in nome della libertà della persona. Senza comprendere che quando si sceglie di por termine all’esistenza, in quel momento stesso si sopprime radicalmente la libertà dell’uomo di fare alcunché. Stupisce in questo senso che sul rifiuto della naturalità della sofferenza e della morte converga a volte confusamente anche qualche spezzone di quella cultura di sinistra che ha avuto, tra i punti d’onore, un apprezzabile filone di umanesimo solidarista che ha prodotto storia. Ne discende allora un’ultima considerazione, perché la deriva individualista, quasi disperante, che respinge e declassa il rispetto per ogni tipo di esistenza, ripropone il tema della presenza e della voce di Dio nella coscienza umana.

Quando questa presenza, questa voce, si affievoliscono l’uomo sente venir meno il più grande sostegno interiore, ma anche la società rischia di perdersi cancellando la spinta degli uomini a sostenersi gli uni con gli altri.

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