IDEE/ Barcellona: cosa c'entra il dolore con la democrazia? Di Pietro
Barcellonavenerdì 9 dicembre 2011 - Disordini a Milano (Imagoeconomica)
ApprofondisciIDEE/ Se la crisi fa ammalare il nostro desiderio, di M.
NicolosiDIBATTITO/ Barcellona: perché un giovane si dovrebbe
"indignare"?, http://www.ilsussidiario.net
In un articolo apparso sul
domenicale del Sole 24 ore, intitolatoMorire di depressione, Gilberto
Corbellini attacca con una inaudita virulenza il volume recentemente pubblicato
di Aldo Bonomi ed Eugenio Borgna, i quali, in modo per certi versi paradossale,
mettono in luce gli aspetti anche positivi dell’esperienza dolorosa della
depressione. In sostanza Corbellini accusa i due autori di chiacchiere
superstiziose e antiscientifiche che tendono a dare del dolore psichico una
interpretazione non interamente riducibile ai meccanismi del funzionamento
cerebrale acquisiti oramai dalle neuroscienze come prova inconfutabile del
carattere organico di tutti i disturbi della psiche, compresa la depressione
che oggi viene considerata il male del secolo.
L’articolo di Corbellini si
colloca peraltro in un numero del domenicale nel quale si fa l’apologia
dell’opera di Lucrezio, De Rerum natura che, anticipando la rivoluzione
moderna, ha liberato gli uomini oppressi dalla superstizione religiosa offrendo
per la prima volta nella storia umana una comprensione razionale dell’universo
basata su leggi di natura: “atomi e vuoto consentono l’aggregazione e la
dissoluzione dei corpi senza che gli dei possono in alcun modo interferire con
i processi fisici”.
Sono convinto, e l’ho ribadito
più volte, che nella situazione contemporanea è in atto un’offensiva
materialistica, improntata al neonaturalismo delle neuroscienze, che tende a
neutralizzare ogni dimensione spirituale e psichica dell’agire sociale umano, offrendo
al pubblico inconsapevole una spiegazione “scientifica”, oggettiva e
deresponsabilizzante di ogni evento umano che abbia a che vedere con la
sofferenza, ma anche con la libertà di scegliere.
L’argomento è dunque di grande
attualità e rilevanza pubblica giacché, per trarre subito le conseguenze
immediate di una tale visione dell’essere umano come meccanismo biologico ed
interamente fisico, è evidente che tutte le riflessioni sulla tragica crisi che
sta attraversando l’Occidente possono ridursi al ritardo culturale che
impedisce di riconoscere l’oggettività delle leggi economiche. La società degli
atomi di Lucrezio è un mondo interamente riducibile a leggi di natura che
possono essere acquisite cognitivamente da tutti e che distruggono ogni spazio
politico per le decisioni e le scelte degli esseri umani e, allo stesso tempo,
cancellano ogni spazio mentale all’interno del quale soltanto può essere
immaginata una libertà e una responsabilità individuale rispetto ad alternative
possibili. Tutte le cose di cui discutiamo e intorno alle quali cerchiamo di
confrontarci non hanno alcun senso, giacché il governo della vita è oramai
interamente affidato al sapere scientifico che promette di condurci alla
felicità del paradiso terrestre epicureo. Che significato possono avere la
democrazia collettiva e la libertà individuale se il funzionamento del mondo e
della società è interamente iscritto in un codice fisico che può essere
conosciuto attraverso il rapporto di causa ed effetto tra un evento e le sue
conseguenze materiali? Siamo arrivati al punto in cui possiamo delegare ai
neuroscienziati e agli esperti di tecnologie sociali il potere di governare le
nostre vite e le nostre relazioni interpersonali?
Se si riflette in questi termini
sulle questioni sollevate dalla divulgazione scientifica che la maggior parte
degli organi di stampa, giornali e media, continua generosamente a propinarci,
credo che venga rimosso totalmente uno dei temi decisivi per comprendere la
condizione degli esseri umani sul pianeta: l’esperienza inevitabile del dolore
psichico come caratteristica propria di chi non solo soffre, ma sa di soffrire
e se ne chiede il perché. Come ha scritto Nogaro in un libro che chiude la
riflessione di Cacciari sul dolore dell’altro, l’esperienza del dolore, e
specialmente del dolore mentale, è costitutiva della specificità degli esseri
umani ed è il più grande mistero col quale dobbiamo confrontarci.
Vittorino Andreoli, che
probabilmente Corbellini iscriverebbe al circolo degli antimoderni
superstiziosi, nel suo ultimo libro, dedicato allo psichiatra e al suo
paziente, ha scritto con straordinaria chiarezza che si dà una distinzione
radicale tra laspiegazione scientifica del dolore e la comprensione del dolore
dell’altro, e ha sottolineato giustamente che mentre la spiegazione delle cause
del dolore può soddisfare un’esigenza cognitiva, solo la comprensione del
dolore mentale può consentire l’istaurarsi di una relazione affettiva che rende
possibile l’accettazione della sofferenza attraverso la condivisione, e la
stessa trasformazione del dolore in una risorsa per vincere la paura della
morte e apprezzare le possibili gioie della vita.
Le stesse considerazioni finali
di Corbellini sugli “effetti placebo” (cioè effetti di palliativi non efficaci
farmacologicamente), dovuti alla mediazione del rapporto fra paziente e medico,
sono clamorosamente in contraddizione con quanto egli stesso afferma sulla
natura puramente neurofisiologica dei disturbi mentali. Cos’è infatti l’effetto
placebo se non la conseguenza di una risonanza affettiva della cura che il
medico offre in dono al suo paziente, come testimonianza della sua presenza
come amico e compagno nella vicenda dolorosa? Un amico psichiatra mi faceva
notare che nella sua esperienza clinica si era convinto che anche la proposta
del farmaco al paziente che soffre può acquistare una funzione simbolica di
nutrimento che fa risorgere nel paziente la relazione rassicurante con il seno
materno. L’effetto placebo non ha infatti alcuna evidenza scientifica e, anche
se sono riscontrabili reazioni neurofisiologiche, esse non vanno imputate al
farmaco ma alla relazione interpersonale fra medico e paziente.
Eliminare dall’orizzonte umano il
problema del dolore mentale e della decisiva rilevanza della relazione
affettiva interpersonale fra il medico e il paziente cancella la storia della
condizione umana come lotta collettiva contro il dolore e l’angoscia di morte e
rende tutti irresponsabili di fronte al grande problema di come gli uomini
hanno combattuto la solitudine attraverso l’amore e la fraternità.
Il fatto che oggi la depressione sia al primo
posto nelle graduatorie sulla sofferenza umana non rappresenta soltanto un
progresso delle capacità diagnostiche fornite dalle classificazioni delle
neuroscienze, ma un approfondirsi drammatico degli interrogativi di ciascuno di
noi sul senso della vita in un contesto sociale che brutalizza ogni aspetto
“sentimentale” dell’essere al mondo.
L’aumento allarmante delle
manifestazioni di tipo depressivo dovrebbe indurci tutti insieme a domandarci
perché nella nostra epoca gli uomini sperimentano una condizione di solitudine
angosciante che non ha precedenti in altre epoche caratterizzate da disastri
ambientali, pestilenze ed epidemie. Questo non significa affatto dire che si
stava meglio quando si stava peggio perché nessuno vuole contestare gli effetti
benefici della scoperta della penicillina o della chemioterapia, ma soltanto
riaffermare che la dimensione propriamente umana della malattia e della
sofferenza non ha niente a che vedere con la sua spiegazione scientifica.
Il dolore umano è il più grande
mistero della nostra condizione perché lega indissolubilmente la storia di
ciascuno al senso dello stare al mondo e della destinazione di tutti gli esseri
umani di fronte alla inevitabile percezione della caducità e della mortalità di
tutto ciò che noi siamo e di tutto ciò che ci sta di fronte. La condizione
umana per questa specifica comprensione del dolore trascende il pragmatismo
empirico del rimedio della cura e rimanda inevitabilmente alle questioni ultime
a cui la filosofia e la religione hanno cercato di rispondere nel corso della
storia. La domanda sulle cose ultime è intimamente connessa all’esperienza del
dolore e al senso della vita rispetto all’angoscia di morte, e perciò pone
l’uomo sempre di fronte ad un problema della comprensione di sé e degli altri
che non si lascia ridurre a puri meccanismi meccanici e fisiologici di causa ed
effetto. Se l’uomo contemporaneo è più esposto alla paura di non sapersi dare
una ragione per vivere, e che spesso a causa di questa esperienza di sofferenza
è colpito da malattie che riguardano anche il suo funzionamento fisiologico, è
un problema che ha a che vedere anche con il modo di essere della nostra
società.
C’è una elaborazione collettiva
dell’esperienza di infelicità insopportabile e della gioia per la adesione
affettiva al mondo esterno che pone ciascuno di noi in una specifica condizione
storico-sociale. Rendersi conto di questo significa per esempio avere un
atteggiamento diverso rispetto alla crisi che sta attraversando il mondo
occidentale. La svalutazione del valore del lavoro umano, il deperimento dei
luoghi di socializzazione tradizionale, la dissoluzione della famiglia,
l’imperativo dell’efficienza economica, l’assunzione del denaro a misuratore
dell’esistenza non sono accidenti secondari nella storia dell’umanità che
riguardano soltanto la contingenza del momento presente, ma indicatori di una
più complessa e articolata relazione tra ciascun individuo e il mondo storico
sociale.
Gli esseri umani non sono
soltanto biologia, ma non sono neppure soltanto società. Ciò che ciascuno
sperimenta nella propria vita è un bisogno di relazione affettiva che trascende
le circostanze contingenti per aprire sempre il nostro stare al mondo al
confronto con l’ignoto e l’infinito.
Proprio per questa ragione la
crisi che stiamo vivendo non è soltanto economica ma direttamente riferibile
alla fragilità del nostro statuto antropologico. Il chi siamo e il dove andiamo
non è un problema al quale le scienze positive potranno dare risposte. Ma è
proprio la consapevolezza dell’assenza di risposte che produce l’apertura
dell’essere umano verso un senso della vita che va ricercato e che, tuttavia,
sempre sfugge ad ogni possesso immediato.
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