domenica 11 dicembre 2011


L'altruismo non è solo umano - La solidarietà fra i ratti ha fondamenti biologici molto simili ai nostri - L'esperimento pubblicato su «Science», di Massimo Piattelli Palmarini, 9 dicembre 2011, http://www.corriere.it

Tra ricevere una tavoletta di cioccolata e liberare un compagno ingiustamente imprigionato, cosa sceglieremmo? Penso proprio che apriremmo quella cella. Molti di noi, potendo fare entrambe le cose, sceglierebbero di liberare il compagno e poi dividere con lui la cioccolata. Normalissimo. Era assai poco prevedibile, però, fino ad oggi, che anche un roditore, un ratto, posto di fronte a una simile scelta, preferisce liberare il suo compagno e rinunciare al saporito pasto, oppure condividerlo con lui.
Il neurobiologo Jean Decety, dell'Università di Chicago, pubblica su Science questo risultato. Con i suoi collaboratori Inbal Ben-Ami Bartal e Peggy Mason, Decety ha messo ripetutamente in una curiosa nuova situazione due ratti che avevano a lungo condiviso la stessa gabbietta. La nuova situazione consiste nel porre uno dei due, ben visibilmente, intrappolato in uno stretto tubo trasparente. Il piccolo prigioniero mostra palesi segni di malessere, agitandosi nella sua prigione. L'altro, che è invece libero di circolare nella solita gabbia, osserva la situazione e presto impara che, toccando con il muso una porticina, può liberare il compagno. E lo fa. In una variante di questo esperimento, oltre al tubo di plexiglass con dentro lo sventurato altro ratto, c'è anche un simile tubo che contiene cioccolata. Il ratto fuori dal tubo è libero di mangiarsi tutta la cioccolata. Invece, in molti casi, prima libera l'altro ratto e poi divide la cioccolata con lui. Oppure prima mangia una parte della cioccolata, poi libera il compagno e gli lascia divorare il resto.
In sostanza, questi roditori mostrano che il piacere di liberare il compagno è pari a quello di mangiare la cioccolata (cibo ambitissimo anche dai roditori, superato solo dalla massima loro golosità per la polpa di avocado). Come questi autori ragionevolmente concludono, si verifica in tal modo che i roditori sono capaci di empatia e di altruismo. Provare empatia significa soffrire quando si osserva soffrire un altro e gioire quando si vede gioire un altro (ma la gioia sarebbe arduo mostrarla in un animale). Il mondo degli esseri umani è pieno di empatia e alcuni dati, ancora non solidissimi, avevano rivelato che l'empatia esiste anche nelle scimmie. La sua esistenza nei roditori, ora dimostrata, fa girare indietro il filmato dell'evoluzione di decine di milioni di anni. Le radici neurobiologiche e neurochimiche dei comportamenti sociali altruisti sono, quindi, non solo molto più antiche di quanto si sarebbe supposto, ma sono rimaste proprio le stesse, dai roditori a noi.
«L'empatia», mi dice Decety, «si basa su processi neuronali e ormonali coinvolti anche negli scambi affettivi e nel nostro profondo legame con i figli, specie quando sono piccolissimi. I circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina». Mi spiega che questi esperimenti sono stati effettuati sia sulle femmine che sui maschi, con risultati identici. Ma si trattava di ratto femmina con ratto femmina o maschio con maschio. Come mai non avete provato anche con femmine che liberano un maschio o viceversa? «Abbiamo impiegato due anni a mettere a punto questi esperimenti e ad analizzare i dati, compresi i correlati neurobiologici e ormonali, che pubblicheremo tra breve. Osservare empatia e altruismo tra i due sessi aggiunge una complicazione. Lo faremo in futuro».
Negli esseri umani, empatia e altruismo variano tra un individuo e un altro. Anche nei ratti si hanno queste variazioni individuali? «Sì», risponde Decety, «alcuni ratti sono più lenti di altri nel liberare il compagno e alcuni, circa un 30 per cento, non lo liberano affatto. Questo potrebbe anche essere un problema cognitivo, per esempio alcuni animali potrebbero non capire bene la situazione o non accorgersi che esiste la possibilità di aprire la porticina». Lo incalzo con una domanda inevitabile: al di fuori del mondo delle neuroscienze, cosa possono dire di interessante questi risultati al lettore non specialista? «Innanzitutto, che il provare empatia per chi soffre e cercare intenzionalmente di venire in soccorso è qualcosa di radicato nell'evoluzione biologica da lungo tempo. Inoltre, nei roditori possiamo studiare il fenomeno alla base, osservando dei mutanti, modificando i centri cerebrali, somministrando o bloccando gli ormoni responsabili, variando la situazione sperimentale. Cose che, ovviamente, per ragioni etiche, sarebbe impossibile fare con gli esseri umani».

Il che pone implicitamente un problema etico: è giusto far soffrire un animale che sente un po' come noi? Vien da rispondere con la scienza: è giusto, perché a noi sta più a cuore la nostra specie di quella dei ratti. Decety ama molto il passaggio di un discorso di Barack Obama dell'agosto 2006, prima che diventasse presidente: «Si parla molto del deficit federale, ma dovremmo parlare di più del nostro deficit di empatia, dell'abilità di metterci nei panni altrui: il bimbo che ha fame, il metalmeccanico che è stato licenziato, la famiglia che ha perso la casa nell'uragano. Quando allarghiamo così l'orizzonte delle nostre preoccupazioni fino a includere degli estranei, diventa arduo non agire, non aiutare». Decety aggiunge che l'empatia non va confusa con il fenomeno più viscerale chiamato contagio emotivo: ridere quando gli altri ridono, essere tristi vedendo facce tristi intorno a noi. Questo processo istintivo, in genere, non produce alcuna azione. Invece l'empatia, quella vera, è un processo cognitivo più astratto, invita a fare qualcosa, a venire in soccorso. Ce lo insegnano Decety, Obama e, assai più umilmente, i roditori.

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