mercoledì 7 dicembre 2011


Miguel Mañara, il vero Don Giovanni di Giovanni Fighera, 07-12-2011, http://labussolaquotidiana.it

Il 13 giugno 1993 a Siviglia Papa Giovanni Paolo II parlò di Don Miguel Mañara nell’omelia: «Don Miguel Mañara […] diede tutto il suo splendore all’ospedale de la Santa Caridad […]. Ordinò ai fratelli: quando incontrate un malato per la strada, ricordatevi che sotto quegli stracci c’è Cristo povero, il suo Dio e Signore». Poi, lasciò un testamento spirituale prima di morire: «Io, don Miguel Mañara, cenere e polvere, miserabile peccatore, per la maggior parte della mia vita ho offeso l’altissima maestà di Dio mio Padre […]. I miei peccati e le mie infamie sono senza numero e solo la grande saggezza di Dio li può nominare, la sua pazienza infinita sopportarli e la sua infinita misericordia perdonarli. Sul mio sepolcro si metta una pietra con questo epitaffio: qui giacciono i resti del peggior uomo che ci fu al mondo. Pregate per lui».

Miguel Mañara rappresenta per molti studiosi il Don Giovanni storico, vissuto a Siviglia nel Seicento. La tradizione letteraria presenta un mito ben differente da quello della figura storica di Miguel Mañara, attingendo probabilmente ad una tradizione popolare mitica precedente. Tirso da Molina ha inaugurato la lunga teoria di opere dedicate al famoso conquistatore di donne, un donnaiolo, preso dal piacere e dalla libertà del vivere, senza rapporti e legami. Da frate qual era, lo scrittore ha condannato il libertinaggio del protagonista in totale sintonia con lo spirito controriformistico dell’epoca. Nel Settecento la figura del Don Giovanni viene riletta in una prospettiva illuministica. Così, il suo peccato diventa ben più grave, un’ostentata e deliberata opposizione a Dio che si traduce nell’atteggiamento di un uomo che non deve rendere conto a nessuno se non a se stesso. Don Giovanni si fa novello Prometeo che non opera, però, per il bene di tutti, ma solo per il proprio obiettivo e per affermare la sua totale libertà dalle norme. Nessuno gli può far paura, nemmeno Dio.

Queste sono le premesse per capire il don Giovanni di Lorenzo da Ponte, musicato da Mozart nel 1787. La seduzione si unisce, nell’opera, alla sfrontatezza del personaggio che, sfidando ogni morale, osa contrapporsi consapevolmente alla divinità. Dopo aver sedotto tante donne, Don Giovanni si accinge all’ennesima conquista, Donn’Anna. Il padre di lei, il Commendatore, interviene e duella incontrando la morte. Nelle sue imprese con il gentil sesso Don Giovanni è assistito dal servitore Leporello, ben cosciente del compito affidatogli («Voi star dentro con la bella/ ed io far la sentinella!») e dell’esagerato numero di imprese scellerate del suo signore («Consolatevi» dice a Donn’Elvira «Non siete voi, non foste e non sarete/ Né la prima né l’ultima. […] Il catalogo è questo/ Delle belle che amò il padron mio»). Quando la voce del Commendatore ucciso invita Don Giovanni al pentimento anticipando la sicura punizione ventura, il conquistatore di donne si fa beffe di lui e lo invita alla cena organizzata per la serata. Alla festa il Commendatore si presenta davvero e in anticipo in forma di statua di pietra. Al rifiuto di fronte all’ennesimo richiamo al pentimento si spalanca la voragine dell’Inferno che inghiotte per sempre Don Giovanni, la sua tracotanza, nonché la sua noncuranza di Dio e della legge del cuore. Il commento finale è quasi pleonastico: «Questo è il fin di chi fa mal:/ E dei perfidi la morte/ Alla vita è sempre uguale».

Karl Hoffmann nell’Ottocento (1813) trasforma il Don Giovanni nel tipico eroe romantico che, mosso dallo Streben (dalla tensione verso l’assoluto), sente profondamente l’inquietudine (Sehnsucht nella terminologia romantica tedesca) di un infinito irraggiungibile: il gran numero di storie denunciano l’insoddisfazione esistenziale e il tentativo di raggiungere la felicità piena attraverso gli amori e i piaceri.

Nel Novecento Oscar Vladislav de L. Milosz, autore lituano (1877-1939), ci presenta un Don Giovanni diverso, simile a quello della tradizione solo nella prima parte della vita. Miguel Mañara è il titolo dell’opera teatrale, divisa in quadri come a voler riprendere le sacre rappresentazioni medioevali. I quadri hanno la funzione di atti, separati tra loro da un lasso di tempo spesso notevole, imperniati sui momenti salienti della vita del protagonista, realmente vissuto nella Siviglia del Seicento.

Nel primo quadro, di fronte agli amici, Miguel Mañara appare triste, lacerato, quasi sfinito dal desiderio di felicità infinito che lo contraddistingue. Pur nella licenziosità scevra di ogni morale e di ogni senso di responsabilità, il protagonista riacquista qui un volto umano, nel riappropriarsi di un cuore che gli altri Don Giovanni sembravano aver perso. Anche nell’intorpidimento dei sensi e nel calcolo egoistico egli è pur mosso da quel desiderio di infinito che è legge dell’animo umano. Ad un certo punto, però, prova un peso, un certo disgusto per le sue malefatte e per l’ebbrezza di piaceri che lascia un vuoto immenso. Quale statura assume qui il personaggio, a differenza del Don Giovanni della tradizione, ebbro di piacere e dimentico spesso del suo cuore! Nella sua miseria, Miguel Mañara riacquista dignità proprio nella consapevolezza della vertigine dell’«abisso di vita» che lui percepisce: «Come colmarlo, quest’abisso di vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. È come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero nulla universale! È un desiderio di colmare le infinite possibilità!».

A Miguel Mañara accade di incontrare un volto diverso dagli altri, che colpisce per semplicità di cuore e letizia: è quello di Girolama Carillo. La ragazza gli confessa: «È perché amo i fiori che non mi piacciono le fanciulle che ne fanno ornamento, come di seta, di pizzo o di piume variopinte. […] Non colgo mai i fiori. Si può benissimo amare, in questo mondo in cui siamo, senza aver subito voglia di uccidere il proprio caro amore, o di imprigionarlo tra i vetri, oppure (come si fa con gli uccelli) in una gabbia in cui l’acqua non ha più sapore d’acqua e i semi d’estate non hanno più sapore di semi». Don Miguel è sorpreso di vedere così felice una sedicenne, che vive per la casa, il giardino, la lezione quotidiana e i poveri, che non trascura nessuno dei suoi doveri. Si rende conto di essere molto cambiato dal giorno del primo incontro con Girolama alla Chiesa della Caridad la domenica delle Palme. Nel contempo, preso ancora dall’antico modo di ragionare, è convinto che non ci sia alcun rimedio a quanto ha compiuto e alla tristezza del suo cuore. Girolama, però, ancora una volta lo sorprende, abbracciando tutta la sua umanità anche nella miseria e dimostrando una capacità di perdono totale. Don Miguel si conosce meglio tanto che esclama: «Che ho fatto della mia vita, che ho fatto del mio cuore? Perché non ho appreso prima di avere un’anima buona! Mi perdonerete?».

L’incontro con Girolama fa comprendere a Don Miguel che è nato per il bene, nonostante i suoi errori e i suoi sbagli. Così, i due si promettono per l’eternità davanti agli uomini e a Dio. Si sposano. Don Miguel è convinto di avere trovato l’amore. Ma nel terzo quadro una volta ancora l’imprevisto entra in scena e scompagina i piani. Girolama, sedicenne, muore, pochi mesi dopo il matrimonio. Nella sofferenza di Don Miguel si ricompie il sacrificio carnale di Cristo. Nel quarto quadro Don Miguel si reca presso il convento della Caridad. All’abate che lo riceve rivela che sta cercando l’umiltà del cuore e l’amore del reale e confessa tutte le sue colpe. Ricorda la sua storia e l’incontro con Girolama. Fa memoria di lei. Dal male può sorgere il bene, dagli abissi delle tenebre si può risalire alla luce. Nel quinto quadro, Don Miguel entrerà a far parte dell’ordine della Caritad. Il suo cuore è ora lieto, la sua tenerezza abbraccia ogni aspetto del creato con lo stupore proprio del bambino.

Nel sesto quadro, Don Miguel muore alla presenza del frate giardiniere che esclama: «Il mio cuore è gioioso come il nido che ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perché so che tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra». Il frate giardiniere ha assistito al più grande dei miracoli, quello del cambiamento del cuore, ha conosciuto la miseria e la dissolutezza di Miguel Mañara, ma ha visto anche i portenti e le meraviglie che dopo Dio ha compiuto operando in lui.

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