«Mio padre si chiama donatore» di Raffaella Frullone, 09-12-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
«Ho passato anni della mia
infanzia a fantasticare su di lui. Costruivo castelli sulle poche cose che
sapevo: capelli biondi, occhi azzurri, laureato. Giorni frenetici e notti
insonni passate a immaginare il suo carattere, le sue passioni. “Forse era un
musicista, come me”, mi dicevo, “forse era un’artista squattrinato, per questo
l’ha fatto, aveva bisogno di soldi”. Poi
ho scoperto che il donatore numero 81 era un professionista affermato, un medico
che si definisce credente. Il mio padre biologico».
24 anni, newyorkese, Alana
Stewart è quello che in gergo tecnico si chiama a donor-conceived adult, ossia
un adulto concepito da donatore. La sua è una delle vicende raccontate nel
documentario Anonymous father’s day (giornata del padre anonimo) che per la
prima volta dà voce a un popolo che ogni anno nei soli Stati Uniti conta dai
30mila ai 60mila nuovi nati. Tanti sono infatti i bimbi che vengono al mondo
grazie alla donazione di sperma da parte di padri rigidamente protetti dal più
totale anonimato.
Prodotto da Jennifer Lahl, già
direttrice di Eggsploitation (sul tema della donazione di ovuli), e presidente
del Center for Bioethics and Culture Network di San Francisco, il documentario,
disponibile on line in lingua inglese, offre una panoramica inquietante su
un’industria globale senza traccia che sta timidamente venendo allo scoperto
grazie ad internet. Mai come in questi anni infatti, proliferano blog, siti e
social network attraverso i quali i figli di padre donatore cercano tracce delle
proprie origini, si incontrano tra “fratelli”(un donatore può arrivare ad aver
generato anche 150 volte), tentano di dare un volto e un nome ad un padre del
quale conoscono soltanto il codice identificativo, l’area in cui il seme è
stato “distribuito”, il lasso di tempo in cui l’attività di donazione è
proseguita.
I 60 minuti del film ospitano il
contributo di Elizabeth Marquardt, direttore del Center for Marriage and
Families at the Institute for American Values, curatrice del rapporto
FamilyScholars.org e coautrice, insieme a Norval D. Guenn e Karen Clark, dello
studio My Daddy’s Name is Donor, ovvero “Mio papà si chiama donatore”, condotto
su un campione di 485 adulti di età compresa tra 18 e 45 anni con lo scopo di
effettuare un primo monitoraggio su una generazione di persone concepite in
risposta ad un irrefrenabile desiderio di maternità e poi abbandonate al loro
destino.
«Il 67% degli intervistati ha
affermato di sentirsi perso dal momento in cui ha appreso di essere figlio di
donatore – afferma la Marquardt – e di voler conoscere il proprio padre
biologico. Il 70% ha ammesso di trascorrere molto tempo fantasticando sulla
vita e le abitudini del donatore e di non riuscire a darsi pace. Tra i dati
registriamo poi una stretta correlazione tra il ricorso al padre donatore e il
fallimento delle unioni matrimoniali».
«Quello a cui siamo abituati a
pensare quando si parla di donazione di sperma, o anche di ovuli, è come
aiutare le persone ad avere un bambino, – spiega Jennifer Lahl, che da anni
studia gli effetti delle tecniche di procreazione assistita – mai riflettiamo
sulle prospettive di determinate scelte, dei diritti, dei desideri delle
aspettative del nascituro. Cosa succede ad un ragazzo quando scopre che il papà
che l’ha cresciuto non è il suo padre biologico? Cosa succede ad una donna
quando l’anziana madre scoperchia il baule del passato e scombina le carte che
sono sempre state in tavola? Come si rapporta ad un bambino un "padre
acquisito"? Quale è “l’impatto etico” dei donatori di sperma sui loro
figli? ».
Per rispondere a domande come
queste il documentario ha scelto di raccontare la storia di Alana Stewart, che
gestisce il sito anonymousus.org attraverso il quale raccoglie e riporta le
storie di chi, come lei, ad un certo punto, ha scoperto di non avere più
radici.
«Avevo 5 anni, era un giorno come
un altro, mi stavo preparando per andare a scuola, quando mia mamma mi ha detto
che ero figlia di un donatore. Così, semplicemente. Ero confusa, ma sicuramente
ho subito dato un nome a quello strano senso di estraneità che da sempre
percepivo nei confronti di papà. Ho una sorella di 2 anni più grande e mia
madre quel giorno mi ha spiegato che lei invece era stata adottata. Qualche
anno dopo i miei genitori si sono separati e mia madre ha concepito
naturalmente il suo terzo figlio con un nuovo compagno. Ho visto mia madre
crescere tre “tipologie biologiche di figli” e le differenze, certamente
involontarie, nel suo rapporto con noi. Ho visto l’unico padre che conoscevo
chiedere, dopo il divorzio, la paternità della mia sorella maggiore e non la
mia. Sentiva più sua la figlia adottata, rispetto a me».
Nonostante gli occhi, a tratti
velati di lacrime, Alana racconta la sua storia con distacco, come se quello
che dice le appartenesse fino ad un certo punto, come se per mettersi al riparo
da uno smarrimento ancora maggiore si fosse rifugiata nelle sue poche certezze.
Il senso di estraneità e smarrimento
accomuna la sua vicenda a quella di tanti altri, tra i quali Barry Stevens che nel documentario racconta
di aver saputo soltanto alla morte del padre, la verità “biologica” sul suo
concepimento. «Suona strano ma è come se io avessi sempre sentito una forma di
distacco nei suoi confronti e mia sorella provava la stessa identica cosa. Come
se in famiglia ci fosse sempre stato un segreto e noi due ne fossimo tenuti
all’oscuro. Era alienante, mi sentivo perennemente incerto».
La crisi di identità e il senso
di confusione percepiti dai figli di donatori rientra in quello che viene
chiamato genealogical bewilderment, ovvero “smarrimento geneologico”. Spiega la
regista: «Il bambino sente insieme curiosità e confusione rispetto a chi
appartiene, alla sua identità, alle sue radici, al suo posto nella famiglia. Lo
si vede nei bambini adottati, che chiedono di sapere dei loro genitori biologici,
e ancor più succede nei bimbi nati da donatore, per i quali la ricerca del
padre è resa ancor più difficile dalla protezione della privacy di chi dona, da
parte delle cliniche».
«Mi sembra assurdo che gli
ospedali trattengano così tante informazioni sui donatori e non si preoccupino
dei diritti di chi nasce – osserva Barry Stevens. – Ci vogliono convincere che
un padre donatore non sia altro che una persona disposta ad aiutare chi non
riesce ad avere figli, una prassi ordinaria. Non considerano che abbiamo tutti
una grande domanda di senso nel cuore che ci porta a domandare: chi sono? Da
dove vengo? Ci ripetono è una cosa normale, che non c’è nulla di male. Eppure
qualcosa non torna...».
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