SUICIDIO MAGRI/ Perché far passare una richiesta d'aiuto per una scelta
libera? Di Paola Binetti, giovedì 1 dicembre 2011, http://www.ilsussidiario.net
Un uomo gravemente depresso
decide di togliersi la vita, andando in Svizzera in una di quelle cliniche
della morte che fanno capo alla Associazione Exit e che fin dai primi anni
quaranta offrono alle persone che ne fanno richiesta la possibilità di
ricorrere al suicidio assistito.
Tra i criteri previsti dalla
Associazione Exit per accogliere una
richiesta così drammatica, ce n’è uno particolarmente importante: il paziente
deve presentare una patologia in fase avanzata, grave, incurabile ed
irreversibile. Ma non questo è il caso di Lucio Magri, giornalista e politico
noto per la libertà di spirito con cui ha sempre manifestato il suo pensiero,
scegliendo spesso il dissenso anche
rispetto al partito comunista, di cui ha attraversato tutte le diverse fasi di
trasformazione.
Ma Lucio Magri non soffriva di
una malattia progressiva, incurabile e irreversibile. Era però gravemente
depresso, in parte perché recentemente aveva perso la moglie, a cui era molto
legato e che aveva assistito fino all’ultimo momento, e in parte perché
sembrava aver perso interesse per il suo lavoro e per il dibattito politico, che lo aveva
sempre appassionato.
Tutti gli amici affermano di aver
cercato di convincerlo, provando a fargli cambiare idea, mostrandogli il loro
affetto, senza riuscirci, ma senza aver paura di provare a forzare la sua
volontà. E’ la dinamica del rapporto tra amici per cui ci si mette in gioco con
la insistente semplicità che suggerisce proprio la stima e l’affetto.
Non ci sono teorie ne astratte
difese di principio del diritto a morire, quando e come si vuole, c’è piuttosto
la sollecitudine di chi desidera attenuare il senso di solitudine dell’amico e
apre con lui un dialogo in cui possono alternarsi toni suadenti e toni più
aspri, con l’unico obiettivo di convincerlo a recedere dalla sua posizione. E
di fatto Magri è andato più volte in Svizzera, decidendo subito dopo di tornare
indietro. Difficile immaginare cosa pensasse, ma certamente non appariva del
tutto convinto né determinato a porre fine alla sua vita. Ma poi l’altro giorno le cose sono andate
diversamente e nonostante la solidarietà degli amici è prevalsa la volontà di
morte.
In questa vicenda triste e amara
ci sono però tre considerazioni fondamentali che occorre porsi, assumendo tre
prospettive diverse, ma convergenti nell’illuminare il senso e il peso di
questo gesto.
La prima riguarda la depressione
come malattia: il DSM IV ("Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali" ndr) tra i suoi sintomi fondamentali registra proprio il senso di
solitudine e di abbandono, il desiderio di morte, il timore di non essere
all’altezza della situazione e di non poter fronteggiare le difficoltà della
propria vita. Ci sono forme diverse di depressione e tra le più diffuse ci sono
quelle che seguono a un grave lutto, o che si accompagnano a una perdita di
autostima, legata a difficoltà economiche e professionali, oppure rivelano una
pesante delusione.
Ma i sintomi di una malattia più
che di libertà del soggetto ce ne rivelano la fragilità; l’oggettiva difficoltà
a fronteggiare certe situazioni non può essere confusa con la motivazione a por
fine alla vita stessa. E’ piuttosto una richiesta di aiuto che coinvolge gli
amici, ma anche e soprattutto quei medici, professionisti esperti, abituati a
trattare patologie complesse come la depressione. Una patologia che richiede
interventi di natura farmacologica, psico-terapeutica, individuale e di
gruppo, e non di rado anche
socio-terapeutica.
La seconda riguarda l’enfasi mediatica con cui
qualcuno ha voluto sottolineare nella scelta di Magri esclusivamente il gesto
di libertà e di autodeterminazione, sottacendone le difficoltà personali, per
criticare l’assetto legislativo italiano che all’articolo 580 del CP condanna
l’istigazione e l’assistenza al suicidio. C’è un impegno esasperato ad esaltare
una libertà di morte mettendo sotto accusa un sistema di valori che connotano
profondamente cultura e tradizione italiana. Un’enfasi che corre il rischio di
far assurgere a modelli di co9mportamneto quelli che non sono altro che
drammatiche scelte personali, per cui si pruò provare rispetto e misericordia,
anche quando non se ne condividono le ragioni e non si riesce ad includere in
una valutazione positiva.
La mia critica va proprio verso
chi approfitta per fare promozione dell’eutanasia ogni volta che la tragedia
personale di un uomo diventa di pubblico dominio e svela la sua sofferenza, il
suo disagio. Invece di promuovere una risposta positiva da parte delle
istituzioni sollecitandole a farsi carico dei bisogni fisici e psicologici
delle persone, potenziando in termini qualitativi e quantitativi la rete delle
cure palliative con interventi che
contribuiscano a ridare speranza alle persone ferite.
Terzo motivo, non meno
importante, riguarda la riflessione sul modello antropologico che presidia
molte delle scelte che si stanno imponendo sul piano sociale e culturale,
politico e giuridico. Non è possibile accontentarsi di un modello che abbia una
impronta fortemente individualistica e rinunzi a ragionare sulla dimensione
relazionale della vita umana. È fondamentale che si torni a ragionare sull’uomo
come soggetto di relazioni irrinunciabili proprio per consentirgli il pieno raggiungimento dei suoi fini, sula
piano affettivo, professionale, sociale.
La solitudine, tanto necessaria
ad ognuno di noi per riflettere sulla propria vita e sul contesto in cui
viviamo, per riappropriarci della nostra libertà smascherando i condizionamenti
che ne limitano l’espressione, ha ragione di essere proprio perché l’uomo vive
abitualmente al centro di un sistema di relazioni, di affetti e di
responsabilità. L’uomo nasce in famiglia e si proietta nel far famiglia, perché
da solo non è in grado di dare la vita né tanto meno di riceverla, lavora con
gli altri e lavora per gli altri, nel desiderio di sentirsi utile mettendo in
gioco i propri talenti, partecipa della vita di chi gli sta accanto cercando di
interagire positivamente con loro. In altri termini è fatto dagli altri e per
gli altri. E nelle sue decisioni non può non tenere conto della ricaduta che
queste hanno nella vita degli altri, secondo una logica che ci vede tutti parte
di un sistema intensamente caratterizzato da un’etica della responsabilità che
si realizza della cura reciproca.
Lucio Magri continua a trasmettere
idee, sensazioni, resta in dialogo con tutti noi, come è avvenuto in questi
giorni, ciò che ha detto, ciò che ha scritto e ciò che ha pensato sono nella
nostra memoria, stimolano la nostra riflessione, per cui nel pieno rispetto
delle sue scelte, è doveroso manifestare la ricaduta che hanno in tutti noi,
anche per evitare che diventi esemplare e generalizzabile, ciò che resta dramma personale e storia individuale. Al di là delle possibili strumentalizzazioni
politiche e culturali.
© Riproduzione riservata.
Nessun commento:
Posta un commento