Il Corriere della Sera del 30
dicembre ha pubblicato un intervento di Dario Antiseri, filosofo conosciuto non
solo dagli specialisti, in particolare come coautore (insieme a Giovanni Reale)
di un manuale di storia della filosofia in uso alle superiori. Antiseri è uno
studioso (specialmente) di filosofia della scienza, è cattolico, si qualifica
fideista, nonché sostenitore (a suo modo), del relativismo e nega la
possibilità di reperire una legge morale naturale.
Non possiamo ovviamente scendere
qui nel merito della sua posizione e ci limitiamo solo a due tesi del suo
recente intervento.
Antiseri insiste sul pluralismo
etico, sul «politeismo dei valori», e dice che «È difficile dar torto a Pascal
quando scrive che “il furto, l’incesto, l'uccisione dei figli e dei padri,
tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose”». Ora, questa tesi è
diffusissima, ma molto discutibile. Molte ricerche empiriche attestano
piuttosto l’esistenza di alcuni principi morali comuni diffusi fra gli esseri
umani (ovviamente il fatto delle convergenza su alcuni principi morali non
fonda la loro normatività; ma questo è un altro discorso). Vari autori hanno
cioè documentato che gli esseri umani sono naturalmente capaci (anche se non
sempre ci riescono) di convenire su alcuni principi morali transculturali.
Ci limitiamo solo a qualche
esempio:
- Clive Staples Lewis ha rilevato
la ricorrenza di alcuni principi morali in culture molto diverse (babilonese,
cinese, indiana, cristiana, greca, sassone, norvegese, ecc.; del resto è
abbastanza noto che ci sono alcune convergenze, per esempio, tra il Decalogo di
Mosè e il Codice del re babilonese Hammurabi);
- Lee Yearly ha messo in luce
alcune somiglianze tra la concezione della virtù di Tommaso d’Aquino e quella
del maestro confuciano cinese Mengzi (IV sec. d.C.);
- per Haidt e Joseph è vero che
«gli esseri umani hanno elaborato morali enormemente divergenti come quelle dei
nazisti, quelle dei Quaccheri, dei cacciatori di teste e dei giainisti. E
tuttavia, se guardiamo attentamente alle vite quotidiane di persone di culture
differenti, troviamo elementi morali che emergono in quasi tutte – per esempio
reciprocità, lealtà, rispetto per (qualche) autorità, limiti al danneggiamento
fisico, regolazione del mangiare e dell’attività sessuale»;
- anche Margaret Mead e Donald
Brown hanno registrato che esistono schemi universali di comportamento
sottostanti ad ogni cultura: ad esempio, ovunque sono esistite ed ovunque si
trovano norme morali e leggi simili (anche se non identiche) contro l’omicidio;
- effettivamente, Dane Archer e
Rosemary Gartner (che hanno confrontato 110 sistemi legali nel periodo
1900-1970) rilevano che ci sono almeno alcuni atti omicidi che tutti i sistemi
giuridici condannano;
- anche Marc Hauser, mediante la
somministrazione di diversi dilemmi morali a migliaia (proprio così) di
persone, ha registrato una certa convergenza morale tra gli esseri umani.
Aggiungiamo (sulla scorta delle
considerazioni del filosofo Diego Marconi) che alcuni comportamenti altrui che
ci sembra abbiano criteri valoriali totalmente in contrasto con i nostri, in
realtà (non di rado) non sono ispirati a valori davvero contrastanti, bensì a
valori che anche noi approviamo. Per esempio, la pratica eschimese di uccidere
o di abbandonare i vecchi ammalati risponde ad una logica di tutela del bene
della collettività che anche noi occidentali, generalmente (salvo alcune
eccezioni) condividiamo; la differenza sta nel fatto che alcuni (non tutti) di
noi occidentali non considerano preminente il bene della collettività rispetto
all’inviolabilità dell’essere umano (anche malato) e/o al dovere morale di
accudire i deboli.
Inoltre, è vero che, sempre per
gli eschimesi, l’infanticidio è giustificabile quando si possiedono risorse
limitate per la cura dei figli, ma questo non toglie «ciò che è universale per
tutti gli esseri umani, [dagli] americani [agli] eschimesi: prendersi cura dei
bambini è un principio morale universale. In tutte le culture, tutti si
aspettano che i genitori si prendano cura della loro prole. […] ciò che varia
tra le culture sono le condizioni che consentono eccezioni alle regole,
comprese quelle relative all’abbandono» (Hauser).
Anche quando una morale si
discosta profondamente dalla maggior parte delle altre, per esempio se insegna
la crudeltà verso gli esseri umani, lo fa non di rado sulla scorta di valori
comuni: il razzismo, ad esempio, può essere insegnato facendo leva (malamente)
sul valore della purezza.
Insomma, alcuni valori non
mutano, e cambia piuttosto il modo di gerarchizzarli ed attuarli.
C’è poi un consenso quasi
universale sulla grandezza morale di almeno alcuni uomini che hanno calcato la
scena del mondo ed almeno alcuni tratti del loro carattere sono considerati
quasi universalmente virtuosi. Alcuni
dei tratti del carattere di alcune figure esemplari (per esempio: Confucio,
Budda, Cristo, Socrate, Gandhi, ecc.) sono transculturalmente stimati.
In sintonia con quanto fin qui
detto, può essere utile rilevare anche nell’ambito della psicologia cognitiva
la progressiva diffusione di una teoria che, alla luce di numerosi riscontri
empirici, sostiene l’esistenza nell’uomo di una capacità morale innata: diversi
sperimentatori (per esempio per Hauser, come abbiamo già detto) hanno
sottoposto dei dilemmi morali a soggetti di culture diverse e, analizzando
migliaia di risposte (molte delle quali sono state raccolte anche mediante il
seguente progetto http://wjh1.wjh.harvard.edu/~moral/index.html ), hanno
registrato una certa convergenza nel giudizio morale.
Così, diversi autori (J. Kagan,
R.S. Lazarus, J. Haidt, M. Hauser e vari altri) stanno proponendo la tesi
dell’esistenza di una naturale e universale disposizione umana alla
comprensione generica (e non dettagliata) del bene/male. Dopodiché lo sviluppo
di questa comprensione molto generica dipende dall’esperienza di ciascuno e può
essere impedito o influenzato dall’ambiente in cui si vive, per cui i principi
etici vengono diversamente sviluppati e applicati dai singoli e dalle culture,
il che spiega le successive differenze tra le concezioni morali.
Ovviamente, la valutazione
complessiva di queste teorie spetta a chi ne ha competenza; a noi interessa
rilevare la loro sintonia, sul piano empirico, con le teorie che sostengono
l’esistenza di una percezione spontanea universale del bene/male, sia pur assai
vaga, e ci interessa la registrazione empirica dell’esistenza di alcuni
principi morali universali (altre considerazioni su questo argomento in G.
Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, 2010, pp.
219-229).
Antiseri ha inoltre scritto:
«Viene da chiedere a tutti gli antirelativisti: tolleranza e democrazia sono
possibili tra quanti si sentono in possesso di Valori esclusivi? Costoro non si
sentiranno in diritto d’imporre il «Vero» e il «Bene»? E ha concluso con «una
domanda ai cattolici antirelativisti: vi pare facile replicare a Karl Heim
quando scrive che “i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a
coloro che relativizzano il mondo e l'uomo”»?
Anche queste tesi sono
diffusissime. Ma le cose non stanno per nulla come dice Antiseri.
Infatti, se è vero che alcuni
totalitarismi hanno preteso di giustificare se stessi sul fondamento di
presunte verità, si trattava appunto di verità presunte, che erano
clamorosamente da rigettare sulla base di una “vera verità” (che non possiamo
qui argomentare), quella sulla preziosità incommensurabile dell’uomo: il
totalitarismo può essere moralmente condannato in qualsiasi caso solo se è
conoscibile la verità secondo cui l’uomo possiede una dignità incommensurabile,
che non si deve assolutamente calpestare. Altrimenti, se la dignità umana di
ognuno è relativa a come la percepisce ogni persona (per Tizio è intangibile,
per Caio è calpestabile, per Sempronio è calpestabile in certi casi ma non in
tutti, ecc.) che cosa impedisce moralmente ad una maggioranza di sterminare una
minoranza, se questa maggioranza ritiene che la dignità umana sia calpestabile?
E non basta aver pattuito delle regole di reciproco rispetto: dev’essere
oggettivamente vero che è moralmente doveroso rispettare tali regole.
Solo la conoscibilità della
verità può far da baluardo teorico contro ogni tipo di intolleranza e di
malvagità umana, compreso il totalitarismo. Infine, come ha scritto Francesco
D’Agostino su Avvenire del 7 gennaio, molti i relativisti cadono in contraddizione
quando e se affermano come assoluti valori come tolleranza, democrazia e
libertà.
Nessun commento:
Posta un commento