Le neuroscienze decretano la fine del libero arbitrio? (parte seconda)
di Michele Forastiere, michele.forastiere@gmail.com,
24 gennaio, 2012, http://www.uccronline.it
Ricorderete che nel mio ultimo
articolo (Ultimissima 13/1/12 ) avevamo cominciato ad affrontare il problema
del libero arbitrio. In particolare, eravamo giunti alla conclusione –
suggerita dalle considerazioni del filosofo Eddy Nahmias – che le moderne
neuroscienze non decretano affatto la fine della responsabilità personale.
D’altro canto, avevamo lasciato in sospeso la domanda più fondamentale di
tutte: “Se la mia stessa autocoscienza è il risultato di una mera
concatenazione di reazioni chimiche, governate da leggi inderogabili, come
posso affermare di prendere decisioni davvero libere?”.
Continuiamo, dunque, nel nostro percorso
di approfondimento sul libero arbitrio, rimanendo anche stavolta nell’ambito
delle neuroscienze. Per inquadrare meglio la questione, è opportuno chiarire
innanzitutto alcuni concetti fondamentali. Secondo il determinismo, lo stato
dell’Universo materiale a un dato istante definisce univocamente, per mezzo
delle leggi fisiche, il suo stato a ogni istante futuro. Insomma, fissata la
situazione dell’Universo in un dato momento, la sua evoluzione successiva
avverrà seguendo uno e un solo inderogabilepercorso. Per l’indeterminismo,
invece, a ogni data configurazione dell’Universo può corrispondere una
pluralità di possibili futuri: a ogni passo si apre un ventaglio di possibilità
tra cui scegliere. Molti sono convinti che il determinismo vieti l’esistenza
del libero arbitrio. Infatti, se un solo percorso è possibile per l’Universo, e
noi siamo parte di esso… evidentemente non possiamo fare altro che ciò che
facciamo: non esiste nessuna possibilità di scelta per ogni nostra azione.
D’altra parte, la situazione per la libertà potrebbe non essere necessariamente
migliore nel caso dell’indeterminismo. Secondo questa concezione, infatti, da
certe fissate condizioni iniziali possono scaturire diversi percorsi
(selezionabili in un opportuno insieme di scelta) di cui uno solo sarà quello
effettivamente seguito. Se, però, la scelta del percorso fosse attribuibile
esclusivamente al caso, non si potrebbe parlare di vera libertà.
Adina Roskies, professoressa di
filosofia presso il Dartmouth College, nel capitolo scritto per il libro “Siamo
davvero liberi? Le neuroscienze e il libero arbitrio” (Edizioni Codice, 2010,
pagg. 51 – 69), osserva che le tecniche di indagine neuroscientifica non sono
in grado di risolvere la questione del determinismo, per un motivo molto semplice:
non riescono a discriminare l’attività cerebrale a un dettaglio
sufficientemente fine. Per intendersi, ciò che appare casuale alla scala di
risoluzione della risonanza magnetica (che è dell’ordine del millimetro)
potrebbe risultare deterministico, se solo analizzato a una scala più piccola
(quella del singolo neurone o addirittura della singola molecola); viceversa,
un’attività apparentemente deterministica potrebbe in realtà essere il
risultato di molti eventi casuali aggregati. Magari si tratta solo di un limite
delle tecniche attuali; però è probabile che un’analisi conclusiva
richiederebbe una risoluzione almeno al livello molecolare… il che, temo, è
destinato a rimanere pura fantascienza ancora per un bel po’ di tempo. Ad ogni
modo, Roskies sottolinea che una risposta al problema del determinismo – se mai
ci sarà – verrà assai più facilmente da una teoria fisica migliore che non
dalle neuroscienze.
Cerchiamo ora di inquadrare la
problematica da un altro punto di vista, quello del rapporto mente-cervello: è
la famosa questione ontologica, trasversale al problema del determinismo.
Semplificando molto: o si ammette l’esistenza di una distinzione concreta tra
cervello e mente, che però sono in reciproca relazione causale – l’uno ha
effetti sull’altra e viceversa (interazionismo ); oppure si ammette
l’insussistenza della mente come ente autonomo, che viene così considerata solo
come un epifenomeno , ovvero come “qualcosa che il cervello fa” (riduzionismo
materialista). Per intendersi, in questo caso il cervello è visto come
l’hardware di un computer, la mente come il suo software. Quest’ultima
concezione è sostenuta – tra gli altri – da Daniel Dennett e Douglas Hofstadter ; la prima – per esempio
– da Karl Popper e John Eccles . In tale
ottica, il discorso sul libero arbitrio assume una dimensione in più.
Filippo Tempia , neurologo e
ordinario di fisiologia all’Università di Torino, illustra – nell’articolo
scritto per “Siamo davvero liberi?” (pagg. 87 – 108) – lo “stato dell’arte”
delle neuroscienze nella prospettiva ontologica. Il famoso esperimento di Libet
– ricorda Tempia – si proponeva di
verificare se accada prima l’evento mentale della volontà di agire oppure
l’attività neurale che conduce all’azione. Il presupposto, naturalmente, era
che quello che viene prima è la causa di quello che viene dopo. I risultati,
come è noto, sembrarono smentire la possibilità di un’azione causale dalla
mente sul cervello, indicando viceversa che le decisioni siano il risultato
dell’attività cerebrale non conscia, e non di un evento mentale volontario. In
quest’ottica, la sensazione di essere agenti delle nostre azioni sarebbe
equiparabile a una mera percezione sensoriale; il soggetto che decide sarebbe
l’organo‑cervello, il cui funzionamento di fondo
dipende solo dalle leggi della fisica; pertanto, la possibilità di un
libero arbitrio in senso proprio sarebbe totalmente esclusa (sia nella
concezione deterministica che in quella indeterministica). Dunque,
l’esperimento di Libet sembrerebbe confermare il punto di vista del
riduzionismo materialista.
In realtà, però, secondo Tempia
la questione non si può considerare affatto risolta. Una serie di esperimenti
eseguiti su diverse aree cerebrali ha infatti dimostrato – dice il neurologo –
che “il tempo mentale di cui abbiamo coscienza non corrisponde fedelmente al
tempo cronometrico, ma viene sovente deformato in modo da creare una
rappresentazione mentale della realtà il più possibile coerente”. In altre
parole, si osserva “una distorsione della percezione del tempo nelle vicinanze
dei movimenti volontari”, che può giungere al punto di invalidare
l’interpretazione della successione temporale di causa-effetto (“Siamo davvero
liberi?”, pagg. 100 – 101). Perciò, a tutt’oggi non si può affermare che vi sia
una qualche prova sperimentale conclusiva a favore del riduzionismo
materialista: rimane quindi aperto il problema “se l’uomo possa decidere in
maniera non determinata dagli antecedenti fisici del proprio cervello”. A ben
vedere, l’idea che un nesso di causalità possa essere svelato da un’analisi
della successione temporale degli eventi neurali risente di una concezione
strettamente meccanicistica del cervello (visto all’incirca come un orologio,
solo più complesso) – si basa, cioè, su un presupposto più o meno arbitrario,
non fondato su ineccepibili dimostrazioni scientifiche. Eppure, la fisica del
XX secolo ci ha insegnato che la realtà materiale non è riducibile nella sua
essenza a fenomeni meccanici (magari con una spruzzatina di fenomeni
elettromagnetici per spiegare la chimica). Pertanto – conclude Tempia – “finché
non conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro relazione con
le leggi della fisica della materia, non sarà possibile negare né confermare
scientificamente un ruolo causale della mente”.
A questo punto appare chiaro che,
per proseguire nella nostra ricerca, sarà necessario chiamare in causa altre
discipline scientifiche oltre alla neurologia. In particolare, proveremo a
capire se la fisica e l’informatica possono fornire indicazioni utili per la soluzione
del problema ontologico, o se esso è destinato a rimanere insoluto… ma di
questo parleremo la prossima volta.
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