DIBATTITO/ Barcellona: meglio Facebook o la vecchia catena di
montaggio? - Pietro Barcellona, venerdì 20 gennaio 2012, il sussidiario.net
La progressiva oggettivazione
dell’Io e di ogni rappresentazione del soggetto di fronte al mondo, e la
progressiva riduzione delle relazioni fra i comportamenti individuali a pure
connessioni funzionali, definibili secondo sequenze automatiche, ha lentamente
portato all’assorbimento della realtà e delle pratiche effettive degli esseri
umani dentro la sfera di un mondo semivirtuale.
La perdita del mondo come realtà
che ci sta di fronte, sia pure attraverso le mille relazioni significative tra
oggetti e persone, tocca essenzialmente il rapporto tra l’uomo e la natura.
Poiché tale rapporto sta alla base di quella che siamo soliti chiamare
economia, è proprio alle trasformazioni del modo di produrre e consumare che
bisogna guardare per cercare di capire il rapporto tra la nostra vita materiale
e la rappresentazione della società come un flusso liquido e come una somma di
paure e di isolamenti individuali.
L’economia rappresenta infatti il
modo in cui l’uomo entra in rapporto con la natura per realizzare, attraverso
al sua “utilizzazione”, la riproduzione di se stesso e del proprio gruppo
sociale. Se produzione e riproduzione del gruppo sociale sono le basi
elementari di ogni costituzione di società, è evidente che le modalità in cui
si realizza la produzione e la riproduzione sono decisive per capire il senso
di ciò che accade in ogni epoca della nostra storia. Non si vuol dire con
questo che l’economia ha un primato assoluto nella configurazione delle persone
e del loro mondo giacché, se non si rappresenta l’economia come una pura appropriazione
della natura, ci si rende conto che in essa è implicata una forma di vita, una
gerarchia di valori e l’intero processo sociale complessivo.
Ciò che è accaduto in questi
ultimi decenni, che pone in modo inedito i problemi relativi all’identità
dell’individuo e del gruppo al quale appartiene, è una totale trasformazione
del rapporto tra economia e società fino al totale assorbimento della vita
delle persone nella sfera della produzione e del consumo.
Pensiamo alla vita. Non era mai
accaduto, come ha sottolineato Sara Ongaro in un libretto di alcuni anni fa
sulle donne nella globalizzazione, che la stessa creazione della vita, la
fecondazione e la procreazione diventassero un affare economico che fa ormai
parte della contabilità come qualsiasi altra produzione di merci. La nascita di
nuovi esseri umani, trasformata in parte integrante del ciclo di valorizzazione
del capitale, costituisce il punto estremo di assorbimento della nostra
esperienza e vita individuale nei paradigmi del funzionamento dell’economia
capitalistica.
In questo esempio estremo si vede
come il modo di produrre e consumare capitalistico sia penetrato in modo
molecolare nella vita quotidiana e abbia determinato contestualmente una
estraniazione della realtà concreta delle persone e degli affetti rispetto a
ciò che essi continuano a provare nelle condizioni della quotidianità,
apparentemente spontanea, dei rapporti umani.
L’assoluta novità della fase che
stiamo vivendo risiede appunto in una totale estraniazione delle pratiche affettive
(che strutturano ancora la vita concreta) dal paradigma astratto dei modi di
funzionamento del capitale e del denaro, che appaiono sempre più gli unici
ordinatori di una realtà che non sembra consentire distinzioni fra sfere
diverse: la sfera degli affetti e delle relazioni tra le persone, e la sfera
della produzione e circolazione delle merci e del denaro.
Che la procreazione possa
diventare un processo economico, composto da banche di ovuli e gameti, di
strutture sanitarie che gestiscono le inseminazioni, e di investimenti sulla
ricerca e sull’innovazione, è certamente un salto di qualità nell’immaginario
collettivo di eventi tradizionalmente avvolti nel mistero come il concepimento
e la nascita.
Similmente, nell’organizzazione
del lavoro della grande fabbrica fordista (si pensi alla Fiat degli anni
sessanta con migliaia e migliaia di operai), i tempi di lavoro e le mansioni
erano definiti e lineari, e la realtà della fabbrica, rappresentata dalla
catena di montaggio, costituiva uno spazio opaco tra il luogo della produzione
e i luoghi esterni della commercializzazione e della formazione della domanda
sociale di merci. Questa relativa opacità del luogo di produzione dagli altri
luoghi sociali consentiva una relativa autonomia del lavoro produttivo rispetto
alla vita dell’operaio e rispetto all’intera società che elaborava i propri
bisogni da soddisfare al mercato delle merci.
Oggi invece la fabbrica si configura come un
luogo di lettura e utilizzazione di informazioni provenienti dall’esterno (dai
lettori ottici dei grandi punti vendita all’uso di carte di credito che
censiscono i gusti del consumatore-utente, ecc.) e l’insieme dei flussi
informativi che attraversano la società entrano direttamente in produzione. Le
nuove tecnologie informatiche incidono direttamente sul modo di lavorare di
qualunque lavoratore di una moderna azienda che deve essere in grado di
espletare tutte le funzioni necessarie alla produzione in tempo reale, just in
time.
L’azienda si riorganizza secondo
un sistema a rete che tende a tagliare drasticamente i costi del lavoro e ad
occupare soltanto lavoro flessibile e precario. Al posto dell’operaio della
catena tende a subentrare un lavoratore polivalente in grado di comunicare
continuamente con tutto ciò che si trova fuori dalla sua attività e
relazionandosi così attraverso la comunicazione con l’intero mondo esterno e in
particolare con il cliente consumatore. La condizione del lavoratore diventa un
continuo spaesamento che ne modifica profondamente i connotati culturali per
renderlo sempre più disponibile alla connessione dei flussi informativi che
interagiscono direttamente con la propria attività lavorativa.
Oggi la vita concreta del
lavoratore e l’insieme del contesto sociale nel quale sembra iscriversi sono
diventati astratti. Il lavoro manuale è diventato anche lavoro cognitivo, e
cioè basato sul saper utilizzare le informazioni ed arricchirle persino con la
propria intelligenza, ma tutto ciò si svolge in una autoreferenzialità della
produzione capitalistica che non sembra incontrare più alcun luogo opaco
rispetto alla sua penetrazione. L’intera società è diventata un flusso di
informazioni utilizzabili per produrre incrementi di valore monetario che non
hanno alcun rapporto con le reali condizioni di vita.
La fine dell’impresa fordista e
la smaterializzazione dei fattori produttivi tradizionali (il cosiddetto
capitale fisso), inaugura l’epoca della finanziarizzazione, l’epoca cioè in cui
il capitale adotta strategie di valorizzazione di se stesso occupando
interamente la sfera della circolazione e dello scambio delle merci, e della
stessa riproduzione della forza lavoro, uomini e donne. La finanziarizzazione
dell’economia contemporanea consente al capitale di disinvestire dai salari
degli operai e dal capitale direttamente produttivo a favore di una produzione
di ricchezza a mezzo di denaro, dirottando cioè i profitti sul mercato
finanziario a scapito della creazione di occupazione e della domanda di
salario. Il capitalismo finanziario proprio in questa fase sembra trasformarsi in
quello che è stato definito “biocapitalismo”, o “capitalismo cognitivo”. Esso
non investe più in salari e in macchine di produzione ma nella costruzione di
meccanismi finanziari che permettono di rendere la creazione di rendite
finanziarie sempre più indipendenti dall’economia reale. Il profitto che si
realizza all’esterno della sfera produttiva tende infatti a diventare rendita.
Naturalmente su questo tema del
rapporto tra rendita e profitto occorrerebbe un approfondimento ulteriore. Ciò
che invece mi interessa sottolineare in questa sede è come le trasformazioni
del lavoro e della produzione realizzino un effetto di evaporazione della
realtà, cioè di scomparsa della sfera delle pratiche affettive attraverso cui
le donne e gli uomini entrano in rapporto. Proprio questo livello di astrazione
estremo è alla base delle crisi che si stanno producendo a ritmo sempre più
accelerato sia nella vita quotidiana sia nella vita degli Stati nazionali. Più
la vita concreta degli esseri umani viene pervasa dalla logica strumentale
della produzione di denaro a mezzo di denaro, più le persone concrete sono
svuotate di ogni capacità di comprensione e di ogni autonomia nella ricerca del
senso della propria esistenza.
Attraverso il controllo
dell’intero ciclo economico, la maggior parte dei bisogni umani appare oggi
prodotta e quasi imposta dal funzionamento dell’intero sistema mediatico che
determina la stessa forma dei desideri e dei bisogni. Si pensi al fenomeno
delle mode che spingono intere masse all’acquisto e al consumo di beni privi di
qualsiasi qualità e utilità. L’intera società viene cioè estraniata dal
processo primario di rappresentazione ed elaborazione dei propri bisogni, che
non sono più il frutto di un’autonoma e consapevole rappresentazione del
rapporto fra se stessi e il mondo, ma sono invece eterodiretti ed eteroformati
dalla macchina produttiva di ricchezza monetaria.
L’astrazione dalla concreta
esperienza della vita di ciascuno dal proprio contesto pratico-affettivo si
risolve in questo caso in una alienazione totale. È questa alienazione che oggi
emerge drammaticamente nelle condizioni della crisi che stiamo attraversando,
che non è appunto soltanto una crisi economica, ma la crisi, come abbiamo orami
spiegato tante volte, di una intera forma di vita.
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