Controllo demografico vs. sicurezza nazionale di Tom McFeely, 09-01-2012,
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New York – Per decenni, uno dei
princìpi base della lobby mondiale per il controllo demografico è stato
affermare che il declino dei tassi di fertilità avrebbe reso più stabile
l’ordine internazionale. Ma, secondo l’autorevole gruppo di studiosi che hanno
dato vita a un libro appena uscito sull’argomento, questo scenario di
"pace geriatrica" è immotivatamente ottimistico.
Population Decline and the
Remaking of Great Power Politics ("Il declino della popolazione e la
riorganizzazione della politica delle grandi potenze"), questo il titolo,
raccoglie nove saggi di ricerca pubblicati per i tipi di Potomac Books di
Dulles in Virginia, e curati dal vicepresidente anziano di C-Fam, il Catholic
Family & Human Rights Institute di Washington, Susan Yoshihara e da Douglas
A. Sylva, Senior Felow presso la medesima istituzione. Nella premessa al libro,
il demografo ed economista politico Nicholas Eberstadt plaude agli autori per
la loro capacità di prendere il toro per le corna, cioè affrontare certe
«domande profonde e ancora prive di risposta» legate al declino demografico e
alla politica internazionale.
L’assunto prevalente secondo cui
i Paesi relativamente vecchi sarebbero automaticamente predisposti alla pace
non è infatti difendibile sul piano storico, come il libro sottolinea. Nel
corso dell’ultimo secolo, i regimi relativamente vecchi quali la Germania nazionalsocialista
e la Serbia degli anni 1990 erano noti per l’aggressività che dimostravano
verso i vicini più giovani; e per quanto invece riguarda la classicità, la
democratica Atene reagì allo shock demografico causato da una pestilenza
devastante inaugurando una serie di azioni militari costose e male
architettate.
Il volume Population Decline and
the Remaking of Great Power Politics si apre con tre capitoli, firmati
rispettivamente da Phillip Lonmgman, James R. Holmes e Francis Sempa, che
espongono l’impianto analitico utilizzato per valutare le interazioni tra
geopolitica e declino demografico. Il proseguio del libro è quindi dedicato a
casi di studio inerenti sei protagonisti globali chiave: Russia, Europa e
Giappone, tutti Paesi che stanno lottando con tassi di fertilità sotto la
soglia del rimpiazzo generazionale; potenze asiatiche emergenti quali Cina e
Giappone, il cui rispettivo futuro sarà tanto diverso quanto sorprendentemente
li sono i loro rispettivi profili demografici; e gli Stati Uniti, il cui
"eccezionalismo demografico" li rende la sola potenza del mondo
sviluppato che resiste allo spopolamento.
In Russia, le nascite sono scese
di un impressionante 50% nel periodo 1987-1999. Nel libro, Murray Feshbach
analizza gli effetti di codesto avvizzimento nel contesto del reclutamento
militare. Esacerbati dalla diffusissima incidenza dell’HIV e della tubercolosi,
la grave mancanza di giovani maschi adatti alla leva che il Paese registra oggi
- afferma Feshbach - «comporterà un aggravarsi delle già fragili condizioni
della società russa, comparto militare incluso, e maggiore di quanto la
questione economica preannunci».
Il Giappone ha cercato di rendere
più sopportabile la sfida demografica sostituendo il personale militare umano
con armamenti altamente tecnologici. Innescando questo processo, però, secondo
quanto afferma un generale del Paese asiatico, «il Giappone ha detto addio a
quel minimo di capacità di difesa militare sovrana che ancora vantava». Tali
limitazioni potrebbero del resto persino restringere la possibilità concreta
del Giappone di contribuire materialmente alle alleanze militari regionali. Se
questo accadesse, avverte Toshi Yoshihara nella propria analisi strategica, «la
cosa potrebbe aggiungere un ulteriore fattore di tragica volubilità alla
politica delle alleanze e innescare dinamiche di competizione fra grandi
potenze a livello regionale che poi possono però riverberarsi a livello
globale».
Di fronte ad analoghe costrizioni
imposte dalla crisi demografica, l’Europa sta cercando si esercitare un
"potere soft" (in contrapposizione al "potere hard" di tipo
militare ed economico) dominando le istituzioni multilaterali e pure
proseguendo l’immigrazione massiccia. Se questo approccio multilateralista sarà
efficace è per adesso cosa completamente oscura, osserva Douglas A. Sylva, ma
resta il fatto che i tassi della fertilità europea sono oggi tanto bassi da
richiedere un apporto migratorio assai maggiore di quel che il continente può
sopportare.
Sylva suggerisce allora ai ceti
politici europei che si cominci piuttosto a prendere in considerazione una
strada radicalmente diversa, ovvero quella di ipotizzare condizioni di
vantaggio per le "donne orientate alla famiglia" che appartengono alle
popolazioni autoctone dei propri Paesi così da propiziare l’innalzamento dei
tassi di natalità. Scrive Sylva a tale proposito: «Fare così costringerebbe
ovviamente l’Europa ad abbandonare alcuni dei più riveriti princìpi del
femminismo e del multiculturalismo, ma è un passo che, nonostante le
conseguenze geopolitiche che comporta, i governi europei sembrano ben poco
propensi a compiere».
Traduzione di Marco Respinti
dell’articolo How Population Control has Harmed National Security, comparso su
Friday Fax, la newsletter settimanale di C-Fam: Catholic Family & Human
Rights Institute, fondato e diretto a Washington da Austin Ruse
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