«Il carcere, un recinto per morti viventi» di Vincenzo Andraous, 11-01-2012,
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Al di là delle tante parole e
delle cifre che si sentono nel dibattito sul problema delle carceri italiane,
abbiamo chiesto una testimonianza a Vincenzo Andraous, che da anni vive sulla
propria pelle la difficile situazione dei luoghi di detenzione.
Rimangono ancora tanti problemi e
non di poco conto sul carcere italiano: troppi extracomunitari da riconsegnare
ai propri paesi, la miriade di tossicodipendenti abbandonati dentro le celle in
attesa del prossimo buco, l’esercito di persone miserevoli con le tasche vuote,
tanti rumori nella testa, la sofferenza nel cuore da curare, da accompagnare
fuori da un carcere che non si piega a nessuna utilità, scopo e prevenzione
sociale.
Chi scrive vi è ristretto da
quarant’anni e ha visto chi muore strozzato e disperato in una cella o chi ci
entra come cittadino adulto e ne esce come un adulto bambino. In carcere ci si
va e come, si resta in un angolo dimenticato, non per pensare al male fatto
agli altri ed a se stessi, ma perché schiacciati nella violenza del nulla. Oggi
si è arrivati al punto da accettare passivamente la tesi di un recinto dove
ognuno è potenzialmente un morto che cammina.
Non si tratta di emanare un atto
di clemenza, occorre ripensare davvero ai tetti spropositati delle condanne,
alle celle anguste che devastano ciò che è già sufficientemente ammaccato, ai
benefici carcerari ridotti al lumicino. E’ necessario pensare ai programmi, ai
progetti fattibili perchè chi esce non abbia a ritornarvi. Quel che è sotto gli
occhi di tutti induce a richiedere subito questo balzo in avanti, perché nelle
carceri le persone muoiono, esse non scontano soltanto una condanna, ma un
sovrappiù che consiste nelle sofferenze fisiche e psicologiche, negli abbandoni
e nelle rese di una sconfitta che non esprime alcuna pietà.
Ci sono situazioni devastanti,
degradanti: alcune assolutamente non scelte, né mai totalmente descritte dalla
cronaca o dalla romanzata fiction televisiva, permane il parassitismo
strutturale che non consente responsabilizzazione nell'irresponsabile, ma
altera e compromette ogni processo cognitivo, creando un arretramento culturale
galoppante e una sorda commiserazione. Allora è davvero urgente una riforma che
sottenda un valore in sé e trascini con sé la volontà a progettare e
organizzare percorsi alternativi al carcere, per evitare inutili effetti
spostamento-trascinamento.
Posso assicurare che in carcere
non si sta bene, è un luogo di afflizione, ma il sopravvivere abbruttendosi non
ha alcun valore di interesse collettivo. Fino a quando non si comprenderà che
in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa dicotomia
spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte,
decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in
considerazione che la morte quasi sempre vince. E’ una prova questa, che indica
la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere
un luogo non autorizzato a fare nascere vita nè speranza, non rammentando che
l’uomo privato della speranza è un uomo già morto. Momento dopo momento, giorno
dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua
trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove
non esiste futuro. Quando il sentimento dell’amore è segregato, sei ancorato a
una stanchezza che ti fa sentire perduto; hai in comune con il tuo simile solo
un dolore sordo, che evita di guardare all’indietro nè di pensare al domani, e
allora riconoscere i propri errori è un’impresa ardua.
Le analisi sistematiche a questo
punto servono poco, per rendere più umano l’inumano: sono più propenso a credere
che dobbiamo convincerci noi, quelli dentro, della possibilità di raggiungere
dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volerci un po’ bene, per
riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica. Quando
l’investimento (non mi riferisco esclusivamente a quello finanziario) copre
quasi interamente il comparto della sicurezza, riservando poca
attenzione-volontà, quella vera per la prevenzione-ricostruzione individuale,
si produce una torsione che ammutolisce la coscienza.
Sicurezza, rieducazione,
risocializzazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può
tenere insieme una società e farla crescere, politica e stili di vita si
travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone
divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in
costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia fossero
improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il
benessere delle persone, eliminando la parte di interventi che riguardano un
preciso interesse collettivo, quella ricomposizione della frattura sociale, da
attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandando a una
giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e
stanno scontando la propria condanna, e intendono ritornare parte attiva del
consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora
delinquenti.
Le parole tentano di nascondere
assenze e mancanze politiche, giungendo a fare di qualche certezza il terreno
fertile della dubitosità, al punto da raccontare che sulla giustizia, sulla
pena, sul carcere, le modalità da registrare sono quelle che vorrebbero la
prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo
sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di
riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività. Quest’ultima
pretende giustamente sanzioni efficaci a ripristinare l’ordine violato, ma deve
evitare che l’esclusione del reo diventi una mera conseguenza di un sonno
intellettivo, rimandando a tempo indeterminato la rielaborazione del reato,
soprattutto dell’atteggiamento criminale, diventato nel frattempo uno status
quo per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.
Forse la condicio sine qua non
per una carcerazione meno brutale sta nel non indulgere in umanitarismi
falsificanti le responsabilità, ritornando a consegnare al carcere la sua
funzione, che non può essere basata su un versante prettamente retributivo, in
quanto ciò non combatte efficacemente la recidiva, anzi la aumenta
spaventosamente.
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