La fede e il benessere psicofisico: correlazioni e distinzioni
dall’“effetto placebo”, 8 gennaio, 2012, di Maria Beatrice Toro, psicologa e
psicoterapeuta (mariabeatricetoro.wordpress.com), http://www.uccronline.it
“Con questo articolo diamo avvio
alla collaborazione con Maria Beatrice Toro, psicologa, psicoterapeuta,
psicodiagnosta esperta nel test di Rorschach, laureata in Filosofia e in
Psicologia, svolge la professione di psicoterapeuta, ricercatrice e docente presso
l’Università Sapienza di Roma, l’università LUMSA, diverse Scuole di
specializzazione in Psicoterapia e presso il Centro Europeo di Criminologia
CEPIC. Dal 2008 è Direttore Didattico della Scuola di Specializzazione in
Psicoterapia Cognitivo Interpersonale SCINT di Roma, dal 2010 Coordinatore
scientifico e Ricercatrice Clinica presso l’Istituto di Terapia Cognitivo
Interpersonale (ITCI). Membro del board editoriale della rivista “Idee in
Psicoterapia” (Alpes Edizioni) e Coordinatore Scientifico della rivista
“Modelli per la mente” (CIC edizioni), collabora con vari istituti di ricerca
affrontando tematiche relative prevalentemente all’infanzia. È autrice di
diversi articoli e libri pubblicati con diversi editori e di numerose
pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali”.
Gli studi che individuano
maggiori livelli di benessere e di salute nei credenti colgono diversi aspetti
di un fenomeno affascinante e complesso, che tocca stili di vita, modi di
pensare, assetti affettivi ed emotivi, pratiche quali la preghiera e la
meditazione, la frequentazione regolare di funzioni e celebrazioni religiose,
l’abitudine a effettuare esercizi spirituali. Se è vero, infatti, che le
persone religiose potrebbero godere di maggiore salute – come riporta la
letteratura scientifica sull’argomento – poiché tendono ad assumere stili di
vita più sani (in conseguenza all’accettazione di prescrizioni e regole di vita
che scoraggiano una serie di pratiche dannose), sembra, tuttavia, importante
sottolineare come non tutto si possa spiegare in base a questo tipo di premessa. Non sono in molti a dubitare
seriamente che uno stile di vita salutare contribuisca a migliorare il benessere
ed è altamente probabile che condividere il medesimo stile moderato con la
collettività dei credenti rafforzi la propria determinazione e la fermezza nel
mantenere i propositi. Fin qui niente di illuminante, se non la constatazione
che chi crede ha maggiore motivazione nel seguire delle buone pratiche ed è
incline ad autodisciplinarsi in modo più efficace rispetto a chi non crede. Un
altro dato che può in parte spiegare il benessere delle persone religiose
riguarda la minore vulnerabilità alla depressione; questa si lega,
probabilmente, al contrasto del sentimento di disperazione e a una buona
capacità di riconoscere i momenti in cui si ha bisogno di aiuto, che distingue
i religiosi dagli scettici. I credenti hanno un maggiore sentimento di fiducia
nel poter ricevere aiuto. La cosiddetta “inaiutabilità”, una percezione che è
caratteristica di chi tende a sviluppare disturbi depressivi, viene mitigata,
nei credenti, dal messaggio che si può fidarsi e che quando si è in difficoltà
si può chiedere, con la preghiera, ma anche con il ricorso agli altri.
Ciò che mi appare interessante è
tentare di sondare il senso di tali specificità di pensiero e comportamento,
introducendo elementi propriamente psico-biologici e correlandoli al maggior
benessere psicofisico. Torno, allora, come primo esempio, alla capacità di
autodisciplina, provando a delineare il motivo grazie a cui i credenti
risultano in grado di controllarsi di più, come riporta una gran mole di
letteratura scientifica sull’argomento. Una delle ragioni può risiedere nel
fatto di mettere grande impegno ed energia nel perseguire obiettivi, allorché
questi obiettivi vengano percepiti come fondamentali, o, ancor più, come sacri.
Non si tratterebbe, però, di una specificità esclusiva delle persone religiose,
ma riguarderebbe, piuttosto, tutte quelle persone che possiamo definire “molto
determinate”. Il discorso si
approfondisce se si vanno ad osservare gli effetti dei sentimenti e delle
attività tipiche dei credenti, cercando di individuare quale sia il loro
impatto sulla mente umana e sulla qualità della vita. Un passo importante è,
allora, sottolineare il senso di speranza e fiducia che caratterizza chi dà una
prospettiva positiva e un senso alle cose. È una sorta di “nutrimento
spirituale”, che, nella maggior parte dei casi, può migliorare l’affettività,
innalzare l’autostima e promuovere atteggiamenti costruttivi.
Ci si può soffermare, poi, sul
contributo apportato da pratiche fondamentali collegate alla fede, quali la
preghiera, solitaria o collettiva, la meditazione, la partecipazione alle
celebrazioni, per andare a vedere nel dettaglio come possano incidere su stati
psicofisici e qualità mentali, quali la volizione e l’autocontrollo. Tutti
questi atteggiamenti e comportamenti si ripercuotono, infatti, nel
funzionamento cerebrale in modo peculiare, favorendo lo sviluppo di alcune
caratteristiche. Gli effetti maggiori riguardano l’attivazione di aree
importanti, nei lobi parietali e temporali, nella corteccia anteriore del giro
del cingolo e nella corteccia prefrontale mediale. Tali aree hanno a che fare
con le cosiddette “capacità meta cognitive”:
riflessione, empatia, capacità di auto-regolazione. La fede e la
preghiera comportano, in particolare, modalità di attivazione cerebrali molto
diverse dalle attivazioni che si osservano nei fenomeni di suggestione, che
passano per altre vie neurali e altri sistemi psicofisiologici. Gli effetti,
che oggi si sa essere benefici, della preghiera e della meditazione vanno
distinti da quelli del rilassamento, delle pratiche suggestive e ipnotiche,
dell’effetto placebo.
Nell’effetto placebo, infatti, i
meccanismi neurofisiologici che sono attivi nei soggetti altamente
suggestionabili non risultano sovrapponibili a fenomeni osservati nei credenti.
I meccanismi della suggestione coinvolgono, anche qui, aree specifiche del
cervello, che hanno a che fare con i cosiddetti “sistemi del reward”, quei
circuiti neurali che si attivano in base a quanto un’attività sia gratificante.
In particolare, una serie di studi ha approfondito il meccanismo psicofisico
indotto nel paziente in seguito alla somministrazione di sostanze che non hanno
nessuna reale proprietà farmacologica, ma che in molti casi dimostrati riesce
ad alleviare un dolore o addirittura a migliorare lo stato fisico. Secondo la
definizione di Shapiro: «Placebo è ogni procedura deliberatamente attuata per
ottenere un effetto o che, anche senza che se ne abbia nozione, svolge
un’azione sul paziente o sul sintomo o sulla malattia, ma che oggettivamente è
priva di ogni attività specifica nei confronti della condizione oggetto di
trattamento. Tale procedura può essere attuata con o senza consapevolezza che
si tratti di un placebo». Si tratta di un fenomeno che ha molto a che fare con
la suggestione, ma ha caratteristiche peculiari che lo distinguono dagli altri
tipi di suggestione, quali l’ipnosi e l’autoipnosi. Una ricerca condotta dai di
neurologi del Department of Psychiatry and Molecular and Behavioral
Neuroscience Institute dell’Università del Michigan, coordinati da Jon Kar
Zubieta, ha individuato, in particolare, un settore del sistema limbico, il
Nucleus Accumbens che viene potentemente coinvolto quando si attiva l’effetto
placebo. Questo nucleo e il sistema endorfinico della dopamina intervengono,
infatti, quando ci si aspetta di ricevere un aiuto e influenzano la risposta
alle cure mediche. La pratica religiosa attiva meccanismi cerebrali differenti
e sovrapporre l’effetto placebo ai fenomeni legati alla fede, al di là della
propria personale posizione sull’argomento, sarebbe, comunque, un errore
scientifico abbastanza grossolano.
Fatta, dunque, questa importante
distinzione, vorrei concludere questa breve riflessione con un approfondimento,
suggerito dagli studi di Andrew Newborg e Eugene d’Aquili, pionieri nella
ricerca dei meccanismi neurobiologici della fede. I due studiosi affermano,
riportando l’ampia letteratura in materia, che i comportamenti religiosi
contribuiscono alla buona salute per la loro capacità di riduzione dello
stress. Una preghiera silenziosa, o una meditazione, o la partecipazione a una
celebrazione attivano la funzione parasimpatica, rafforzando la risposta immunitaria
agli agenti patogeni, riducendo frequenza cardiaca e pressione sanguigna,
nonchè la concentrazione ematica di ormoni quali il cortisolo.
C’è, però, anche un tipo di
attivazione ulteriore, che può essere innescato dalla preghiera intensa e continuativa.
Questa pratica favorisce il raggiungimento della percezione che le cose abbiano
un senso unitario. E’ il cuore spirituale dell’esperienza religiosa, il momento
in cui si nella mente si apre lo spiraglio della trascendenza, reso possibile
dalla struttura stessa del nostro cervello. Le specificità umane rendono
infatti possibile questo tipo di intuizione e di dialogo, in cui si trascende
se stessi; i suoi complessi effetti non si spiegano agevolmente ricorrendo a
sovrapposizioni con altre attività e stati mentali. Se vogliamo indagare la natura di questa
capacità di auto trascendenza dell’essere umano ed i suoi effetti, spesso
benefici, è importante partire dall’ipotesi che si tratti di qualcosa di
diverso, di un fenomeno originale, una peculiarità di funzionamento assunta
dalla coscienza umana quando entra in gioco l’esperienza di Dio.
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