Perché ogni bimbo esige un papà e una mamma di R.Iafrate e G. Tamanza, 26-01-2012,
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Per gentile concessione,
dall'ultimo numero in uscita di «Vita e Pensiero», bimestrale culturale
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblichiamo questa riflessione
firmata dagli psicologi Raffaella Iafrate e Giancarlo Tamanza.
Perché oggi parlare di madri e
padri rappresenta un argomento sfidante? L’essere genitori parrebbe di primo
acchito una delle esperienze esistenziali più note e condivise, una sorta di
“universale” indiscusso e indiscutibile dell’umano. Eppure, attualmente, in un
clima di individualismo e di relativismo, anche tale tema è ampiamente messo in
questione.
L’incremento dell’instabilità
coniugale con la diffusione di famiglie monogenitoriali, l’esperienza della
genitorialità sempre più vissuta come una scelta e un diritto individuale, la
diffusione di forme familiari alternative e il dibattito sui diritti delle
coppie omosessuali mettono in discussione l’affermazione da sempre condivisa
secondo la quale «un bambino per crescere ha bisogno di un papà e di una
mamma». Potremmo riassumere la sfida a cui maternità e paternità sono
attualmente sottoposti in un paio di domande che paiono serpeggiare nel
dibattito culturale odierno. Perché due genitori? E perché diversi?
In prima battuta sarebbe già
possibile rispondere a queste domande semplicemente osservando, dal punto di
vista fenomenologico, come tutta la letteratura psicologica metta da sempre in
evidenza il ruolo differenziale delle due figure genitoriali, mostrando come
madri e padri giochino ruoli e funzioni diversi e complementari nell’educazione
dei figli e nella trasmissione di competenze e valori. Se è vero – come è vero
– che, per crescere, un individuo ha bisogno di fare esperienza della
differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e
imparare dall’altro, la non omologabilità delle funzioni del maschile e del
femminile appare decisiva. Molte ricerche di psicologia dimostrano come, lungo
il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un “codice affettivo
materno”, improntato alla cura, alla protezione e all’accoglienza
incondizionata e di un “codice etico paterno”, espresso dalla responsabilità,
dalla norma, dalla spinta emancipativa, siano fondamentali per garantire
un’equilibrata evoluzione dell’identità personale. In particolare, è stata da
sempre ampiamente sottolineata l’importanza di instaurare un buon legame di
attaccamento con la madre, così come, soprattutto negli studi più recenti, è
stata enfatizzata la centralità della funzione paterna man mano che il figlio
cresce, a motivo della necessità di regole e di orientamento verso l’autonomia
che, specie dall’adolescenza in poi, divengono fondamentali.
Numerosi studi, inoltre, hanno
mostrato in più occasioni come, in situazioni familiari peculiari
caratterizzate dall’assenza di un genitore, o dalla carenza di una delle due
funzioni genitoriali (specie con l’impallidimento della figura paterna, tipico
del nostro contesto fondamentalmente “matrifocale”) si possano riscontrare non
poche difficoltà, anche a lungo termine, per i figli. Eppure, qualcuno potrebbe
obiettare, è possibile crescere senza un genitore: l’esperienza positiva di
numerose famiglie in cui anche non per scelta, ma per un’avversità del destino,
una figura genitoriale è venuta a mancare, testimonia che, pur nella fatica della
perdita e dell’assenza, i figli possono crescere sani e sereni anche con la
sola madre o il solo padre. La funzione “differenziante” può essere assunta
anche da altre figure di riferimento, nonni, amici, reti di sostegno esterne,
così come l’esercizio delle funzioni educative può essere condiviso con altri
che non siano l’altro genitore. Le funzioni materna e paterna sono inoltre per
alcuni aspetti interscambiabili: sempre più frequentemente si incontrano madri
che esercitano alcuni aspetti della funzione paterna e viceversa padri che
svolgono parte della funzione materna (per esempio aspetti legati
all’accudimento), soprattutto oggi dove il rifiuto dei modelli normativi del
passato conduce i padri ad allinearsi maggiormente alle modalità di relazione
tipicamente femminili-materne (si parla a tal proposito di new nurturant
fathers).
LA CENTRALITA' DELL'ORIGINE
La questione va dunque posta a un
altro livello. Il tema della “necessità” per l’umano di un paterno e di un
materno, o meglio proprio di “quel padre” e di “quella madre”, implica uno
spostamento di attenzione dal piano materiale-fenomenologico a un piano
simbolico-antropologico e soprattutto impone un capovolgimento della
prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio.
Se c’è un dato indiscutibile, su
cui non si può obiettare, è che per nascere “quel figlio” ha bisogno di “quel
padre” e di “quella madre”. Le differenze di genere e di generazione sono
inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica: è importante
dunque partire non dalla coppia, ma dal figlio. Il figlio è sempre generato da
due, e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi
familiari, da due storie intergenerazionali e sociali. La differenza (di
genere, di stirpe, di storia) non solo consente la procreazione, ma permette
anche che nel tempo il figlio diventi a propria volta generativo da più punti
di vista. L’incontro con l’altro da sé evidenzia il limite (tu sei quello che
io non sono) e al tempo stesso la potenzialità dell’umano (solo insieme a te
posso andare oltre me stesso), quindi aiuta a riconoscere ciò che si è e
l’obiettivo per cui si è nati. Centrali diventano dunque i temi dell’origine,
dell’identità e della generatività. Il figlio, per strutturare la propria
identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è
sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno
generato e che consentirà di inserirsi in una storia intergenerazionale e
sociale, che lo renderà a propria volta generativo a livello biologico,
psicologico e simbolico-culturale, ossia gli permetterà di realizzare
pienamente se stesso e la sua umanità.
Senza un’origine non c’è
identità. Alla domanda «chi sono io?» non riusciamo a rispondere
esaurientemente senza far riferimento alla nostra origine. Solo il semplice
fatto di pronunciare il nostro nome e cognome ci fa risalire a chi il nome l’ha
scelto per noi e ci ha inserito in un’appartenenza familiare. Ripartendo dal
tema dell’origine, si capisce così che questo processo non può che riguardare
sia una madre sia un padre. Se il parto è affidato interamente alle donne (per
questo mater semper certa est), la nascita è rappresentata dal riconoscimento
del padre, dalla nominazione (in nomine patris), dall’ingresso del nuovo nato
nella famiglia come persona unica e irripetibile proprio perche “distinta”,
“separata” e per questo “nominata”. Françoise Dolto afferma che è il padre a
infondere a un atto biologico come la nascita un carattere propriamente
“umano”; attraverso l’adozione simbolica del nuovo nato, il padre riconosce e
umanizza la nuova vita nascente.
La donna, dunque, mette al mondo,
ma non genera da sola. Perché il processo della nascita sia compiuto occorre
spostarsi da un piano puramente biologico a uno simbolico-sociale che il
riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di
introdurre. È la madre che ospita la funzione paterna e ne consente
l’esercizio. È fondamentale che nella relazione madre-figlio/a ci sia il
riferimento a un terzo, il padre appunto. È il padre che istituisce la
differenza/ differenziazione dall’originaria simbiosi con la madre (come ha
sempre affermato la psicoanalisi) e, nominandolo, “taglia”, “separa”
“de-finisce” il figlio sottraendolo dallo stato di onnipotenza e introducendo
il senso del limite e contemporaneamente il senso e la direzione della sua
crescita, favorendo così la sua piena umanizzazione.
PROVOCAZIONI DELLA CULTURA
CONTEMPORANEA
In questa prospettiva concettuale
e considerando le dimensioni essenziali della paternità e della maternità, la
sfida e gli interrogativi che la società e la cultura contemporanea pongono
alla genitorialità assumono un aspetto più radicale e complesso. A ben vedere,
infatti, la messa in questione del senso della genitorialità non riguarda
soltanto le nuove forme di vita familiare. Queste ultime rappresentano
piuttosto la condizione empirico-fenomenologica che rende esplicito il tema, ma
l’interrogativo circa la necessità per un figlio di accedere e di trattare
mentalmente il rapporto con le proprie origini riguarda allo stesso modo le
situazioni familiari più comuni o tradizionali. E anche all’interno di queste
situazioni familiari ordinarie, dove cioè un figlio sperimenta in modo del
tutto aproblematico la presenza di un padre e di una madre, diventa necessario
riflettere su quanto le forme contemporanee della paternità e della maternità
possano essere sfidate circa la loro funzione essenziale e messe alla prova dai
modelli socioculturali emergenti.
La riflessione e le ricerche
sociologiche e psicosociali hanno da tempo, a questo proposito, messo in
evidenza alcuni caratteri tipici della genitorialità contemporanea. Essi si
inscrivono in un più complessivo e generalizzato processo di trasformazione sociale
e culturale che ha prodotto un significativo cambiamento del modo stesso con
cui sembra strutturarsi la mente e l’identità personale, segnata da
un’accresciuta e ormai prevalente centratura sulla ricerca dell’affermazione
individualistica del Sé e sulla prevalenza di istanze narcisistiche che
inducono a una ricerca immediata e superficiale della soddisfazione personale.
Tale assetto ha, ovviamente, delle ripercussioni sulle forme della
genitorialità, principalmente in due sensi.
In primo luogo, e questo è un
cambiamento assai rilevante, l’accesso alla genitorialità risulta essere
percepito come l’esito di uno specifico e deliberato atto di volontà,
contrassegnato da tratti di intensa idealizzazione e da elevatissime
aspettative di conferma del proprio valore personale, tanto da rendere poco
tollerabile e riconoscibile l’irriducibile scarto che l’unicità della realtà
personale del figlio porta con sé. Nell’esperienza genitoriale appare, in altre
parole, sempre più diffuso il bisogno che il figlio sia conforme non solo
all’immagine del “figlio desiderato”, ma che esso sostenga e confermi il senso
che il diventare genitori assume nell’economia psichica del padre e della
madre. Da qui, del resto, deriva la crescente legittimazione del “diritto alla
genitorialità”, inteso non più come possibilità o disponibilità dell’adulto ad
accogliere un figlio, ma come opzione del tutto incondizionata e soggetta
unicamente alla libera scelta dell’adulto. Tale assetto psichico e culturale
che, a prima vista, sembrerebbe produrre un rafforzamento della posizione del
genitore rispetto al figlio, comporta in realtà anche un suo indebolimento, nel
senso che amplifica gli aspetti di dipendenza del genitore nei confronti del
figlio e riduce la sua capacità di porsi come guida autorevole, capace di
tollerare le inevitabili frustrazioni e i conflitti che l’emergere
dell’autentica e originaria realtà del figlio produce.
Un secondo carattere dei processi
più complessivi di trasformazione sociale e culturale che pare essere strettamente
connesso alle forme contemporanee della genitorialità riguarda la difficoltà a
riconoscere e tener conto del rilievo, tutt’affatto che semplice e lineare, ma
piuttosto contrastato se non addirittura contraddittorio, che gli elementi di
legame (e di vincolo) assumono nel determinare l’identità personale. Essi sono
assai ricercati nella loro valenza funzionale e strumentale, sia sul piano
interpersonale, sia sul piano sociale, ma assai meno riconosciuti nella loro
valenza di significazione e di vincolo, poiché ciò è avvertito come un ostacolo
o un limite all’affermazione delle proprie istanze individuali. In tal modo,
però, si rischia di misconoscere l’essenza stessa della realtà genitoriale, che
al contrario non può essere che strutturalmente relazionale, cioè fatta – come
allude la sua etimologia – di vincolo (re-ligo) e di senso (re-fero). A questo
proposito anche il pensiero psicologico, nonostante da molto tempo siano
disponibili evidenze empiriche più che ragionevoli, contribuisce in molti casi
a legittimare e rafforzare una visione sostanzialmente riduzionistica della
realtà genitoriale, laddove continua ad attribuire un rilievo pressoché
esclusivo al determinismo intrapsichico o, al più, al “modellamento”
determinatosi nell’originaria interazione diadica con le figure di
attaccamento.
Al contrario, il fondamento
dell’identità personale, a partire dal suo substrato genetico-biologico, non
può che essere ricondotto a una struttura triadico-relazionale che, a sua
volta, si inscrive in una più ampia concatenazione transgenerazionale. La
genitorialità, in altre parole, non può che dispiegarsi in un “gioco a tre” e
il fondamento dell’identità del figlio, in quanto figlio, non può che
risolversi in un’unica e specifica collocazione spazio-temporale, cioè in un
posto specifico all’interno della storia e della geografia familiare. E non si
tratta, ovviamente, di una questione puramente materiale, ma prima di tutto
mentale, dal momento che ogni posizione all’interno del “corpo familiare” è
unica e raccoglie l’insieme dei significati, delle aspettative e dei desideri
che, anche inconsapevolmente, si trasmettono e depositano attraverso le
generazioni. Potersi misurare mentalmente con due genitori, nella loro
essenziale unicità, e soprattutto potersi identificare e riconoscere nel
legame, come elemento “terzo”, eccedente gli individui, è una condizione
necessaria per parametrarsi in modo congruo e realistico con le proprie
coordinate di origine o, detto diversamente, per dare un fondamento reale e non
immaginario alla propria identità.
A fronte di una cultura spesso
spaventata dai limiti e dalla differenza – se non addirittura violenta – nei
confronti di essi, avversa ai legami, centrata su valori individualistici e
poco interessata a dare senso e a indicare obiettivi alle esperienze di vita
delle persone, la famiglia, con le sue categorie di paternità, maternità,
filiazione, propone dunque la sua sfida presentandosi – come affermano Eugenia
Scabini e Vittorio Cigoli nei loro numerosi scritti sull’approccio relazionale
simbolico – come il luogo per eccellenza dell’incontro-relazione tra le
differenze fondative dell’umano (quelle tra genere, generazione e stirpi) e
dunque orientato a un fine generativo, com’è propria dell’incontro tra
differenze, sia sul piano biologico, sia su quello culturale.
Per questo la necessità di
riconoscersi in un padre e in una madre è un’istanza originaria dell’umano e,
al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, il diritto
inalienabile di chi è figlio, ciò che non può essere censurato e che pretende
di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica alla propria origine,
il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre lo
definirà come persona pienamente umana.
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