Avvenire.it, 7 gennaio 2012, Almeno cinque buoni motivi. Laici e
cattolici - Perché non possiamo non dirci antirelativisti Francesco D'Agostino
Sono un cattolico
'antirelativista'. Uno di quelli che Dario Antiseri (cfr. il Corriere della
Sera del 30 dicembre) invita perentoriamente a dare una replica
all’affermazione di Karl Heim (da lui profondamente condivisa), che sostiene
che i cattolici dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che «relativizzano il
mondo e l’uomo». Di repliche non ne ho una soltanto, ne ho almeno cinque (in
realtà sono molte di più, ma mi fermo a cinque per il rispetto che si deve ai
lettori).
Il relativismo è incompatibile
con il riconoscimento dei diritti umani, come diritti fondamentali e
inviolabili di ogni uomo, quale che sia la sua cultura e la sua religione di
appartenenza. Da quando le Nazioni Unite hanno approvato nel 1948 la grande
Carta dei Diritti si sono moltiplicati i tentativi di criticarla, di
minimizzarla, di ridicolizzarla, di interpretarla come una mera risposta a
aspettative storiche contingenti. La Carta dell’Onu, però, ha resistito a tutte
le intemperie e continua ad essere il modello per tutte le ulteriori Carte dei
diritti umani. È un dato, questo, su cui i relativisti non si fermano mai a
riflettere.
Il relativismo, o almeno quello
patrocinato dai 'relativisti', non è mai veramente tale, perché a partire da
esso, ma contro ogni buona ragione, i relativisti si fanno promotori della
tolleranza, della democrazia e della libertà, di tre valori splendidi,
assolutamente 'non relativizzabili'. La contraddizione è palese. Un vero relativista
dovrebbe ragionare in altro modo: poiché non esistono valori assoluti e non ho
alcun criterio razionale per stabilire che i valori altrui siano migliori o
anche equivalenti ai miei, rispetterò i valori altrui solo quando questo
rispetto non mi nuoce: in caso di conflitto, però, cercherò sempre di far
prevalere i miei valori, per la semplice ragione che sono i miei e nella serena
presunzione che nessuno potrà mai accusarmi di aver agito ingiustamente, dato
che per definizione una giustizia assoluta non esiste (almeno per un
relativista).
Non è vero che democrazia e
relativismo siano indissolubili, come pensa Antiseri, citando Kelsen. Lo
dimostra il fatto che le grandi democrazie occidentali, partendo dal Regno
Unito e dagli Stati Uniti (e mettiamo nel novero anche l’Italia) si fondano su
costituzioni liberali, ma non relativistiche.
Assimilare, per amore di
polemica, gli antirelativisti ai fondamentalisti è assolutamente scorretto.
L’antirelativista crede alla
verità del bene e assume le parole di Dio come quelle di un Padre, che ama
tutti i suoi figli (anche se 'prodighi'!) e vuole il loro bene. Il
fondamentalista, invece, non vede Dio come un Padre, ma come un Sovrano che
emana ordini insindacabili e ineludibili da parte degli uomini, cioè dei suoi
sudditi ed è pronto a punire con la morte la loro disubbidienza.
Infine, l’ultima obiezione,
l’unica veramente 'cattolica'. Il relativismo è incompatibile con l’articolo
fondamentale del Credo cristiano: «Credo in un solo Dio». C’è un solo Dio, che
ha creato il cielo, la terra e gli esseri umani, che fa piovere sui giusti e
sugli ingiusti e che offre a tutti la sua grazia: per questo dobbiamo
considerarci tutti fratelli e sperare tutti nella salvezza di tutti. I
relativisti reputano insuperabili le differenze tra gli uomini e le loro
culture e amano sottolinearne la reciproca irriducibilità; gli antirelativisti
operano invece per reinterpretarle, per superarle, per unificarle, nella
certezza che tutto nell’esperienza umana può essere volto al bene. Come può un
cristiano non essere antirelativista?
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