Il danno dopo
la beffa Serena Taccari, 04-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it
Domenica 5 Febbraio la Chiesa
italiana celebra la Giornata della Vita. Nell'occasione vi proponiamo la
testimonianza di Serena Taccari, presidente della associazione "Il
dono" onlus (www.il-dono.org ), che si occupa di seguire le donne che hanno
avuto un aborto. La testimonianza è tratta dal libro curato da Giovanni
Corbelli, "Mamme che piangono - Il dolore che resta dopo un aborto",
edito da Fede & Cultura. Il libro è uno dei progetti sostenuti in vista
della Marcia per la Vita che si svolgerà a Roma il prossimo 13 maggio
(info@marciaperlavita.it ). Chi volesse acquistare il libro può farlo
direttamente dal sito dell'editrice "Fede e Cultura".
Accompagnare gli eventi di
nascita è una cosa bellissima di cui tutti andiamo fieri e che portiamo come
fiore al nostro occhiello. Eppure se si vuole parlare di vita c’è anche altro,
qualcosa in cui nessuno ha voglia di stare, che è davvero troppo scomodo, e che
obiettivamente dal punto di vista sociale ha rappresentato e rappresenta una
carenza ben vistosa. Sì, perché si dà il caso che una bella pancia di una mamma
sia sotto gli occhi di tutti, un bambino che nasce sia sotto gli occhi di
tutti, una donna che sorride sia sotto gli occhi di tutti. Eppure anche il
fatto che sia una donna – che è anche lei vita – con i suoi piedi a entrare in
ospedale con una gravidanza e ad uscire dall’ospedale senza la gravidanza,
sempre lei, coi suoi soliti piedi, è sotto gli occhi di tutti.
E poi? Dove va? Cosa fa? È chiaro
che un mondo che propone l’aborto come soluzione di tutti i maggiori problemi
femminili non può tollerare di vedere quello di cui non ci si vanta, quello di
cui non si va fieri: la donna che ha abortito. Ma è davvero una carenza
abbastanza vistosa, proporre alle donne la scelta dell’aborto magari dopo aver
negato l’esistenza in quel minuscolo embrione, di un figlio, e poi dimenticarsi
di quelle stesse donne cui è stato “erogato” questo pubblico servizio: non
dobbiamo sforzarci troppo per capire che se il bambino non tornerà indietro,
dopo un aborto sono loro, quelle che restano. Le donne.
In tanti anni che lavoro in
questo ambito mi sono chiesta perché non si faccia un sondaggio anche non
ufficiale, così, tra le chiacchiere di tante amiche in modo che la risposta sia
intima, sincera, profonda e non “la risposta esatta”, per capire se le donne
che hanno usufruito di questo diritto sociale all’aborto ritengono di aver
avuto un grande privilegio. Dal canto mio, posso rispondere senza presumere di
rappresentare tutto l’universo femminile, ma a nome di quel campione di circa
4000 donne che noi abbiamo seguito dopo una interruzione di gravidanza, delle
quali nessuna è fiera di aver abortito e non ritiene di aver fatto un passo
avanti nel suo personale progresso sociale in quanto donna, per l’aver
usufruito di questo diritto.
«Forse qualcuno ti dirà che
insieme a tuo figlio morirai anche tu, ma questa è una verità relativa, la
verità schiacciante è che non morirai affatto, a te sarà concesso di vivere, e
quella sarà la tua punizione più grande. Vivere con un fardello enorme da
portare, con la consapevolezza che tu, solo tu, hai ucciso tuo figlio. Tu che
dovevi amarlo e proteggerlo, tu che sei la sua mamma, l’unica di cui tuo figlio
ha bisogno» (da Quello che resta, ed. VitaNuova).
Queste poche drammatiche frasi
sono la fotografia di un dolore che nessuno vuole ascoltare o vedere, di una
realtà che socialmente bisogna tenere sepolta perché guardarla non è
politicamente corretto; e questo è lo sberleffo, il danno dopo la beffa che si
infligge alle donne.
Neanche gli abortisti incalliti
ritengono più che l’aborto sia una scelta facile, non ti diranno più che è come
togliere un dente, eppure nessuno vuole sentir parlare di una donna che dopo un
aborto si strappa i capelli… sì, anche nel senso fisico del termine. O che si
butta sull’alcool, sulla droga o sulle storie di sesso insensate. O che non
riesce a guardare più in faccia i propri figli, o il proprio marito o compagno;
che allo scoccare di ogni anno viene assalita da un inspiegabile magone, da
accessi di pianto… ed agli occhi di tutti diventa quella “strana”, quella
“depressa”, quella che “lo vive male”.
C’è qualcuno che vive bene la
morte di un figlio? Immagino che se incontrassimo qualcuno che ci dicesse: “Sai
oggi mio figlio si è schiantato contro un tir, vado a mangiare una pizza,
vieni?” allora sì, dovremmo preoccuparci; e non troveremmo alcuna stranezza in
una donna che si dispera per la morte di un figlio.
Ma… saremmo a disagio. Saremmo sì
ugualmente a disagio e non vorremmo telefonarle perché “che cosa le dici?” –
niente… che vuoi dire a una madre cui è morto un figlio? Come si fa a
consolarla? Quali parole possono cercare di colmare questo vuoto? E allora
cercheremmo forse di evitarla e i più coraggiosi, magari dopo qualche giorno,
andranno a fornirle un silenzioso abbraccio. Oppure si aspetterà… perché il
tempo lenisce le ferite, si dice, le cura.
La morte ci mette a disagio,
eppure fa parte della vita il morire. E nessuno ci ha garantito che moriremo in
grande pace nel nostro letto di casa, né a noi, né ai nostri figli.
E cosa si può dire a quella madre
cui è morto un figlio ed è stata lei stessa a condannarlo a morte senza capire
cosa stava facendo? Quella donna che piange, piange perché vorrebbe tornare
indietro nel tempo, perché avrebbe voluto incontrare qualcuno sulla sua strada
che le avesse mostrato un’alternativa al suicidio… sì, perché questo strambo
suicidio in cui essa resta in vita, in perenne agonia, è una morte lenta, non
del corpo certo, ma non è meno morte.
Ho detto “senza capire cosa stava
facendo”. Ebbene sì. Nel 2012, ripeto, senza capire cosa stava facendo. Io non
ho seguito delle pazze che andavano ad abortire gridando “voglio fare a pezzi
mio figlio!”. Ho seguito donne spaventate, terrorizzate, che non avevano alcun
sentimento di odio verso il bambino, ma che in quella gravidanza non riuscivano
proprio a vederlo.
Si parla spesso di lessico che
modifica le coscienze, e ritengo che sia profondamente vero.
Con il termine “gravidanza” è
molto più difficile riuscire a identificare un figlio, rispetto a quando si ha
davanti un bambino bello e nato. Se qualcuno avesse messo in braccio a quelle
mie stesse donne un bimbo di qualche giorno che avrebbero dovuto crescere loro,
avrebbero sbuffato, si sarebbero arrabbiate, avrebbero battuto i piedi in
terra, ma non gli avrebbero torto un capello. No, non sono donne arrabbiate
contro il bambino: costoro sono donne ingannate, perché quel bambino non
riescono proprio a vederlo, al di là di quel panico irrazionale che le
attanaglia. Panico che è anche fatto di una subdola coercizione attuata a
livello sociale. Da una società che ti definisce stupido se fai figli, che per
questo ti castra sul posto di lavoro, e ti rende tutto terribilmente difficile;
da una famiglia che non è accogliente e ti fa sentire più sbagliata di quanto
già ti senti perché sei rimasta incinta in un momento che forse non era il top
o perché questo è il terzo o quarto figlio… neanche li andassero a partorire
loro. Da uomini che promettono eterno amore e dichiarano anche di volere con te
un figlio ma poi come esce il test positivo spariscono come il mago Zurlì, o
nel peggiore dei casi si pongono come ricatto perché quel figlio, concepito da
tutti e due, da uno solo venga fisicamente eliminato.
Affinché questo si inizi a
poterlo vedere, prima che a volerlo vedere, è necessario che cambi la
mentalità; che cambi qualche altra cosa dentro ciascuno di noi, che ci si senta
responsabili di un silenzio coatto in cui sono state chiuse tutte quelle
centinaia di migliaia di donne che hanno abortito e che stanno soffrendo.
Occorre che tutti aprano gli
occhi su una realtà: quella dei dati del Ministero della Sanità che parla ogni
anno di circa 130mila aborti. Pensateci bene: supponendo che non sia sempre la
stessa ad andare ad abortire, sono in totale 130mila donne. Sono ottimista? Va
bene, vogliamo essere pessimisti: allora saranno 90mila? 70mila? E dove stanno?
Dove sono? A fare le maestre mentre tengono i nostri figli vivi e ripensano
continuamente al loro che hanno eliminato? A curare altri bambini in casa
piangendo in bagno le somiglianze che immaginano ci sarebbero state con il
figlio che oggi non c’è? Negli uffici, al bar, dove sono? In casa nostra? Nel
nostro palazzo? E noi, perché non le riusciamo a vedere? Perché non riusciamo a
vedere che aiutare una donna a portare avanti una gravidanza in qualunque
situazione si trovi è un investimento per tutti noi?
Si stima che una donna su quattro
abbia abortito almeno una volta. Io auguro a ciascuno di avere il coraggio di
prendere la sua agenda e per tutte le donne che conosce si faccia una domanda:
chi? E anche un’altra domanda: come sta? E provi a rispondersi. E magari – che
non guasta – a trovare il coraggio di esporsi e chiedere, di sentire il
desiderio di dare speranza a chi nella sua vita non la vede e pensa di non meritarla
più, ma soprattutto di smetterla di sostenere che la scelta delle donne sia
suicidarsi con un aborto e di avere voglia di spendersi per la vita, delle
donne e dei bambini, perché nessuno si salva da solo e tutti siamo chiamati in
gioco.
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