Avvenire.it, 16 marzo 2012 - Auspici «creativi» e cardini del nostro diritto
di famiglia - Quell’insuperabile precetto costituzionale di Alberto Gambino
L’auspicio espresso ieri dalla
prima sezione civile della Corte di Cassazione sul riconoscimento di un
«diritto alla vita familiare» delle coppie gay si pone in aperto contrasto con
il complesso delle norme in materia familiare. A meno di non voler intendere
che «vita familiare» sia ormai diventato sinonimo di qualunque forma
aggregativa (dai club sportivi, alle "famiglie" aziendali, per
passare ai vincoli solidaristici delle associazioni di tendenza), occorre
ricordare come il diritto italiano affronta attualmente il tema della
distinzione di sesso rispetto all’istituto del matrimonio civile.
Diritto italiano, che – giova
ricordarlo ai fautori delle "sentenze creative" come la presidente
della prima sezione, già ben nota per aver firmato nel 2007 la sentenza Englaro
– è ciò che tutti i giudici di legittimità della suprema Corte sono tenuti ad
applicare. Dall’insieme delle disposizioni che disciplinano il matrimonio
emerge con chiarezza che la diversità di sesso dei coniugi ne costituisce
presupposto indispensabile e che solo a tale forma di unione il legislatore
riconosce tutela e rilevanza giuridica.
È un dato rintracciabile anche
nella disciplina della filiazione legittima e in leggi speciali, tra le quali i
casi di scioglimento del matrimonio e la materia dell’ordinamento dello stato
civile. In tutte queste situazioni si postula la diversità di sesso dei coniugi
nel quadro di una consolidata e ultramillenaria nozione di famiglia. La rara giurisprudenza
che si era occupata della questione ha considerato la diversità di sesso dei
coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza di una
famiglia. Sono norme che compongono elementi essenziali del cosiddetto
"ordine pubblico" dello Stato, che implica l’illegittimità di
matrimoni contratti da soggetti non distinti sessualmente.
Ora, invece, una sezione della
Corte di Cassazione sostiene che sì, tutto questo è vero, tant’è che le unioni
omosessuali non possono intendersi come «atti di matrimonio», ma che comunque
esse «in presenza di specifiche situazioni» hanno «diritto ad un trattamento
omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata». Qui il tema
non è certo quello di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali della
persona - dall’assistenza alla previdenza - su cui certamente non incide
l’eventuale condizione omosessuale, ma di comprendere se forme di convivenza
tra persone dello stesso sesso implichino la necessità di una loro
parificazione giuridica con le coppie coniugate, così provocando il
ripensamento della centralità costituzionale del modello matrimoniale fondato
sulla diversità dei sessi.
Per utilizzare la terminologia
della Cassazione, in nome «del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione
di coppia» (che peraltro nessuno mette in discussione) sarebbe ormai
«radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei
nubendi è presupposto indispensabile, per così dire naturalistico, della stessa
esistenza del matrimonio». La tesi avanzata fa leva sul fatto che, poiché il
diritto alla vita familiare è un diritto inviolabile, esso deve essere
garantito a tutti, senza distinzioni di orientamento sessuale.
Già, ma di quale famiglia stiamo
parlando? L’articolo 29 della Costituzione, riconosce, nel primo comma, «i
diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». La norma
pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita «società
naturale» e, con tale espressione si intende che la famiglia contemplata dalla
norma ha dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che dunque il
legislatore ordinario può "solo" riconoscere. Come risulta dai lavori
dei Costituenti, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto
estranea al dibattito, benché la condizione omosessuale non fosse certo
sconosciuta. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione
che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi,
ha riguardo proprio alla posizione della donna, cui intende attribuire pari
dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto
costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, con una semplice
rilettura "culturale" (o, piuttosto, "ideologica") del
sistema. È centrale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato
del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli
(articolo 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal
matrimonio. La giusta e doverosa tutela garantita ai figli naturali nulla
toglie, anzi rafforza il rilievo costituzionale attribuito alla famiglia
coniugale e alla sua (potenziale) finalità procreativa che vale a
differenziarla dall’unione omosessuale.
In questo quadro, allora, non può
in alcun modo ritenersi «superata» – come asseriscono i giudici di Cassazione –
una normativa come quella italiana che pone la famiglia, unione tra uomo e
donna, quale cellula fondante della nostra società umana e, perciò, meritevole
di norme di protezione di rango superiore rispetto ad altre unioni affettive.
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