martedì 6 marzo 2012


Scienza e fede - Alternative, parallele o dialogiche? -  Gianfranco Ravasi, 6 marzo 2012, http://www.osservatoreromano.va

Si deve riconoscere che gli atteggiamenti principali adottati dalle due discipline, scienza e teologia, nel loro confrontarsi, sono stati spesso sospettosi e fin dialettici, per non dire antitetici. Il «caso Galileo» rimane — nonostante tutte le puntualizzazioni e le precisazioni storiografiche — una sorta di vessillo sempre sventolato e il tribunale della storia è ancora aperto non tanto per un giudizio sul passato, quanto piuttosto come monito minaccioso e mai archiviato per il presente e il futuro dei rapporti tra scienza e teologia. Sostanzialmente possiamo dire che queste relazioni hanno visto l’affermarsi di una triplice tipologia (spesso in contemporanea a livello storico): l’alternativa polemica, il parallelo distaccato, il dialogo sorvegliato.
Il risultato auspicabile dovrebbe essere quello fatto balenare nella celebre battuta di Albert Einstein nel suo scritto autobiografico Out of My Later Years (1950): «La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca». Un pensiero echeggiato nel discorso di Giovanni Paolo II in occasione del centenario della nascita (1879-1979) dello stesso Einstein. Il Papa, infatti, citando la Gaudium et spes (n. 7), ricordava: «Anche la vita religiosa è sotto l’influsso delle nuove situazioni (...) un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose». Ancor più sintetico ed esplicito il famoso scienziato Max Planck che nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico (1906) affermava che «scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente».
Da un lato, è, allora, necessario che lo scienziato lasci cadere quell’orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la filosofia e la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell’hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell’essere e dell’esistere, del senso e dei valori. Ma, d’altro lato, si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Come scriveva il filosofo tedesco Friedrich Schelling a proposito del rapporto tra storia e fede, potremmo ribadire la necessità che scienziato e teologo «custodiscano castamente la loro frontiera», rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli altri approcci alla realtà in esame.
È, dunque, importante, proporre innanzitutto una sorta di «coesistenza pacifica» tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha un vertice (o una sorgente) nel positivismo del filosofo francese Auguste Comte, negatore della «legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica». Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso scientifico le proposizioni della metafisica, dell’etica e dell’estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo. I neopositivisti del cosiddetto «Circolo di Vienna» (Schlick, Neurath, Carnap e così via) andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l’affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non scientifici. In realtà, per il filosofo viennese — che non era certo un agnostico — si tratta solo di un’«ineffabilità» insita in quelle proposizioni, per cui «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», e non certo di una loro assurdità.
Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del «Circolo», come Dawkins e altri difensori di uno scientismo a oltranza, tale impostazione viene ormai considerata come marginale e semplificatoria.
Infatti ci si muove sempre di più secondo un reciproco e coerente rispetto tra i due campi: la scienza si dedica ai fatti, ai dati, alla «scena», al «come»; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al «fondamento», al «perché», secondo specifici protocolli di ricerca.
È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria (Noma), ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali. Come scriveva già nel 1878 Nietzsche in Umano, troppo umano: «Fra religione e scienza non esistono né parentele né amicizia ma neppure inimicizia: vivono in sfere diverse».
Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza storica. Entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l’oggetto della loro investigazione (l’uomo, l’essere, il cosmo) e — come ha osservato acutamente il filosofo della scienza Michał Heller, nel suo saggio Nuova fisica e nuova teologia — «probabilmente esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico senza confondere i livelli», anzi, con esiti fecondi (si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie «tempo» e «spazio»).
Inoltre, continua lo studioso polacco, «la distinzione dei livelli non dovrebbe legittimare l’esclusione aprioristica della possibilità di qualsiasi sintesi». È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) «teoria dei due livelli», una sussidiaria «teoria del dialogo» propugnata da Józef Tischner che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza unificante e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l’universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti che si intrecciano tra loro nell’unicità della persona. Non è soddisfacente, allora, per una più compiuta risposta dissociare radicalmente i contributi scientifici da quelli filosofici e viceversa, pena una perdita della vera «concretezza» della realtà e dell’autenticità della stessa conoscenza umana che non è monodica, cioè solo razionale e formale, ma anche simbolico-affettiva (le pascaliane «ragioni del cuore»).
Questa «teoria del dialogo» — che, per altro, faceva parte dell’eredità dell’umanesimo classico — è fatta balenare anche nella Lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana: «Il dialogo [tra scienza e fede] deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento.Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l’altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando». Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede. Il “fenomeno” a cui si dedica la scienza, ossia la “scena” come sopra si diceva, non è indipendente dal “fondamento” e, quindi, esperienza e trascendenza sono distinte nei livelli ma non isolate e incomunicabili.
A questo punto, se vogliamo attestarci solo sul versante che ci è proprio, quello teologico, possiamo condividere quanto scriveva José Luis Illanes in un articolo su Scripta Theologica del 1982: «La teologia può attuare il suo contributo solo se si mantiene in contatto con le altre scienze. Essa ha bisogno di essere ascoltata ma ha altrettanto bisogno di ascoltare gli altri saperi. Il teologo, come lo scienziato, deve essere umile, e in misura ancor maggiore: non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte a cui deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi». Siamo in presenza di due profili dello stesso volto: cancellato uno, il viso si sfigura. Per dirla con una battuta folgorante dei Pensieri di Pascal (n. 253, edizione Brunschvicg): «Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione».

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