Eluana, eutanasia dell'Italia di Mario Palmaro, 09-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/
Che cosa resta del “caso
Englaro”, a tre anni dalla morte di Eluana?
E’ innegabile che quella dolorosa
vicenda è uscita dalla cronaca per entrare nella storia del nostro Paese: un
caso umano e giudiziario che resterà nei manuali come segnavia del dibattito
etico e giuridico intorno all’eutanasia.
Eluana è stata trasformata, lei
non potendoci dire in alcun modo se ciò le fosse gradito o meno, in un simbolo:
il simbolo vivente (perché era, appunto, viva) della rivendicazione di una
morte che non sia più l’esito ineluttabile del limite umano, ma la scelta
deliberata di familiari, giudici, tutori, medici che compiono gli atti
necessari per far morire. Nel caso specifico, interrompendo alimentazione e
idratazione a una paziente che prometteva – o minacciava: a seconda dei punti
di vista – di continuare a vivere per mesi e forse per anni.
Dal punto di vista dei fautori
della dolce morte, il caso Englaro è stato un successo almeno sotto quattro
profili: mediatico, culturale, medico e politico.
Innanzitutto sul piano dei grandi
mezzi di comunicazione, dove la vicenda è stata cavalcata in maniera perfetta e
ha rappresentato un vero e proprio caso di scuola di come si possa usare una
storia personale e individuale per sostenere una tesi valida invece per tutti;
e cioè che è meglio morire piuttosto che vivere in certe condizioni, se il
paziente così vuole, o se si presume che così egli voglia.
Un successo sul piano culturale,
perché ha contribuito a sdoganare fra la gente comune l’idea che uno possa
ottenere di morire, quando lo chiede; convincendo l’opinione pubblica che il
passo tra la richiesta e la pretesa sia così breve da risultare invisibile.
Sul piano medico, questa storia
ha polarizzato l’attenzione di tutti su alimentazione e idratazione, facendo
dimenticare che si può praticare l’eutanasia anche interrompendo deliberatamente
altre forme di sostentamento più complesse, e quindi allentando la resistenza
morale su questo fronte; tanto è vero che dopo la vicenda di Eluana - per la
legge del piano inclinato – anche in casa cattolica molti si affrettarono a
“sdoganare” il caso Welby, considerandolo come non-eutanasico, e cancellando
così le resistenze pubbliche che invece all’epoca si erano manifestate,
culminanti nella coraggiosa decisione del cardinal Camillo Ruini di rifiutare
le esequie religiose.
Sul piano politico va registrato
infine il successo più eclatante, perché il caso Englaro è servito a mettere in
moto il meccanismo della ormai famosa legge sul testamento biologico. Legge
promossa e sposata non – come sarebbe accaduto prima della morte di Eluana - dal fronte dei fautori della “dolce morte”,
gli stessi che promossero e ottennero divorzio legale e aborto legale – ma
promossa e sposata da coloro che, nell’agone politico, si qualificano come
“difensori della vita”. Un testacoda concettuale davvero stupefacente, che non
ha prodotto tutti i suoi risultati politici soltanto per l’indebolimento prima
e la caduta poi del Governo Berlusconi. Ma che comunque ha “sdoganato”
culturalmente e moralmente il testamento biologico, che ora viene impugnato
come un “Moloc”, buono e docile, da grandi fette del mondo cattolico e da
alcuni autorevoli ambienti pro life.
Il caso Englaro è però stato,
accanto a questi “successi”, anche un fallimento obiettivo per la cultura della
morte. E il fallimento consiste in un fatto: e cioè che da allora, nonostante
l’enorme impatto mediatico ed emotivo, nonostante l’impressionante allineamento
degli opinionisti; nonostante tutto e tutti, da allora non si sono verificati
in Italia casi giudiziari analoghi a questo. I pazienti in stato vegetativo
sono numerosi, i malati che presentano altre condizioni croniche penose e
difficili sono ancor più diffusi, il campionario del dolore e talvolta,
purtroppo, della disperazione è lungo e ben fornito. Ma nonostante questo, e
nonostante lo Stato non abbia modificato le leggi in materia come volevano i
fautori delle DAT (dichiarazioni anticipate di trattamento), in tre anni i casi
giudiziari analoghi quanti sono stati? Zero.
La ragione è semplice ed è stata
già più volte evidenziata da una “minoranza silenziata” in casa cattolica: e
cioè che il caso Englaro dimostrava la possibilità di ripercorrere da parte di
altri la lunga, incerta e non facile strada giudiziaria intrapresa da quella
famiglia; ma che a nessuno sarebbe stato preventivamente garantito un esito
analogo, né un analogo atteggiamento “comprensivo” da parte degli organismi
giurisdizionali.
Soprattutto, è chiaro che – come
si insegna al primo anno di Giurisprudenza anche nelle peggiori università –
una sentenza, o anche una catena di sentenze, in un sistema di civil law non è
in grado di sovvertire norme cogenti dell’ordinamento giuridico, soprattutto se
norme di diritto penale.
Questa è la lucida, e se si vuole
anche un po’ cruda diagnosi di quella tristissima storia, tre anni dopo.
Peccato che la politica, soprattutto la parte impegnata nella difesa dei
“valori”, non l’abbia capito. E continui a non capirlo.
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