venerdì 2 marzo 2012


Avvenire.it, 1 marzo 2012 , I MAESTRI DEL CINEMA - Taviani: nel nostro film il riscatto dei detenuti di Giacomo Vallati

«Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione» Questo commento lo fa un attore diverso da tutti gli altri. S’è inchinato agli applausi, è sceso dal palco, s’è tolto il costume di scena. Ed è rientrato in cella. È uno dei trenta detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Assieme a loro ha interpretato il Giulio Cesare di Shakespeare, ed è stato ripreso all’interno del film Cesare deve morire.

Così il suo commento  – autentico, pronunciato dopo una giornata di riprese, e poi divenuto il finale del film – riassume  tutto il senso della pellicola che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. «L’arte apre la mente e l’anima. Rende in qualche modo "liberi" – spiega Paolo Taviani (80 anni) – E questo, per trenta uomini condannati a decine d’ anni di galera, se non al "fine pena mai", ha un significato speciale».

Il significato di Cesare deve morire: la «liberazione interiore» – a metà tra documento e fiction – di trenta, autentici carcerati. Trasformati in attori. «Molti di loro non sanno né leggere né scrivere – considera Fabio Cavalli (che nel film, e nella realtà, è stato il regista dello spettacolo, poi ripreso dai Taviani) – E quando scoprono i poeti hanno uno shock. Capiscono di essere dei potenziali artisti; rimpiangono quanto hanno perduto. Ma soprattutto pensano: forse non è ancora finita. Forse abbiamo ancora una chance».

La singolare storia della costruzione di Cesare deve morire (da domani nelle sale) rispecchia la sua affascinante anomalia. «Un giorno una cara amica c’invitò a vedere uno spettacolo nel carcere di Rebibbia – racconta Vittorio Taviani (82 anni) – All’inizio eravamo diffidenti. "Sarà anche buono – pensavamo – ma pur sempre filodrammatico". I detenuti lessero l’Inferno di Dante, "traducendolo" nel loro parlare dialettale. E confrontandolo col proprio inferno personale. Uno di loro disse: "Queste parole voi potete capirle fino a un certo punto. Noi invece le sentiamo tutte, perché le abbiamo vissute". Rimanemmo fulminati».

Così emoziona, e commuove insieme, la rigorosa pellicola in un severo bianco e nero – e solo a tratti in vividi colori – che segue passo passo la creazione dello spettacolo: provini, letture a tavolino, prove in piedi, rappresentazione. E serale, inesorabile rientro in cella. «Lavorare con attori che sono stati anche ladri o assassini, significa evocare esperienze che un comune attore non possiede. Alcuni di loro hanno talento; ma è un talento diverso. Portano inconsapevolmente negli occhi, nella voce, qualcosa che rende i loro personaggi più veri».

Quanto al rapporto umano con loro, i sentimenti dei Taviani sono stati contrastanti. «Girare un film significa condividere la stessa ricerca di verità. E quindi fare amicizia – osserva Paolo – Poi però abbiamo pensato: è giusto compatire questi assassini? Non bisognerebbe compatire le loro vittime?». Aggiunge Vittorio: «Finchè sentimmo che attraverso Shakespeare riuscivamo a tirar fuori da loro emozioni che, in un certo senso, purificavano le loro colpe. Uno di loro ha scritto alla moglie: "Vieni a vedere lo spettacolo. Quando recito mi sembra di potermi perdonare"».

L’Orso d’Orso, per i due anziani maestri, è stato fonte «di grande piacere e stupore». Circa quelli che hanno cercato di salire sul carro del vincitore, Nanni Moretti («L’unico a voler distribuire il film – precisa la produttrice Grazia Volpi – Nessun’altro ci ha creduto») commenta: «Questa è una vittoria dei  fratelli Taviani. Non del cinema italiano». Ma soprattutto degli interpreti. «Noi speriamo che chi vedrà Cesare deve morire capisca che essi – è vero – si sono macchiati di colpe orrende. Ma che sono e restano uomini».

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