Avvenire.it, 4 marzo 2012 - Vite «non degne»? I disabili gravi chiedono
rispetto - La «terapia della speranza» nello sguardo su noi malati di Mario
Melazzini
In questi giorni si è riparlato
di eutanasia per «quei pazienti costretti a una sofferenza insopportabile e
senza speranza», come ha scritto qualcuno.
Tutto ciò mi porta sempre più a
riflettere sulla realtà di persone che, anche in condizione di grave malattia o
disabilità, desiderano vivere e affermare il valore della vita indipendentemente
dalla condizione fisica.
Un’esperienza – di questo si
tratta – di speranza quotidiana, che si scontra in modo semplice ma
irriducibile con la mentalità dei 'benpensanti', che non tengono conto del
valore inestimabile della persona e della vita qualunque ne sia la condizione.
Questo significa avallare l’idea che una persona con disabilità è un peso
sociale e non sia in grado di dare il proprio contributo alla società e
affermarsi. Chiunque, se messo nelle condizioni di poter scegliere liberamente,
può realizzarsi. Il tema centrale riguarda quindi l’ambiente dove la persona
malata sia libera di agire in una situazione di uguaglianza e di partecipazione
alla vita della società.
L’essere umano, che ha
l’imperativo compito di fornire cura e assistenza a chi ne ha bisogno, deve
poter esprimere tutta la propria ricchezza interiore – il meglio di sé – nel
relazionarsi a chi soffre per il fatto di portare su di sé il peso, l’affanno,
il malessere e la paura della malattia. Il dolore e la sofferenza (fisica,
psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per
questo sono senza significato. Ed è qui che l’impegno della medicina e della
scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore
delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di
vita.
Una certa corrente di pensiero
ritiene che la vita in talune condizioni si trasformi in un accanimento e in un
calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo
sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie
altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco
di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia.
È inaccettabile avallare l’idea
che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato
o la persona con disabilità in un 'fardello' passivo, un costo per la società.
Si tratta di un’offesa per tutti, in particolare per chi vive una condizione di
malattia: questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro
famiglie, introducendo nei più fragili il dubbio di poter essere vittime di un
programmato disinteresse della società, e favorendo decisioni rinunciatarie.
Una società civile non si può costruire su falsi presupposti, perché l’amore
vero non uccide e non chiede di morire.
"Inguaribile" non è
sinonimo di "incurabile". La vita umana è un mistero irriducibile che
non può essere descritto dai soli elementi biologici, pertanto non è
ammissibile l’idea che una vita sia degna di essere vissuta solo 'a' e
"in" certe condizioni. Più di tutto vorrei però soffermarmi sulla
speranza, perché è questo in fondo il cuore della sofferenza, ma ancora di più
dell’esperienza umana. Non c’è uomo senza speranza, è insita in lui. La
circostanza – qualunque essa sia – non è obiezione alla tua felicità ma ne è il
tramite: chiunque, anche in una situazione di difficoltà o di malattia, può
avere speranza ed essere felice. La speranza poggia sull’incontro con un altro
che spera, in lui intravede una possibilità per sé di vivere ed essere felice.
Per questo considero la speranza uno strumento di cura, e di vita,
bidirezionale: la dai e la ricevi, puoi trasmetterla e averla da chi ti
circonda. Nel rapporto tra il malato e chi lo cura la dignità sta nell’occhio
del curante, quello sguardo che liberamente si pone sull’altro ci restituisce
dignità, come scrive Benedetto XVI. Allo stesso modo lo sguardo di un malato
pieno di speranza che guarda chi lo cura riempie di dignità l’altro e l’azione che
sta compiendo. Questo ci ha spinto a desiderare e a concretizzare l’incontro
con il Santo Padre, mercoledì 7 all’udienza generale, con il suo sguardo, il
suo messaggio di speranza, in modo da continuare con tenacia e determinazione
il nostro percorso di vita anche con la malattia, la disabilità, la sofferenza.
Si tratta di fare memoria reciproca: l’altro c’è, è fonte di speranza, è un
fatto presente che deve succedere ogni giorno, soprattutto nella difficoltà. La
speranza è ciò che ti fa guardare al futuro poggiando sul presente e su quanto
c’è di positivo.
Un’idea espressa benissimo da
Andrej Rublëv nell’omonimo film di Andrej Tarkovskij: «Lo sai anche tu, certi
giorni non ti riesce nulla, oppure sei stanco, sfinito, e niente ti dà
sollievo, e all’improvviso nella folla incontri uno sguardo semplice, uno
sguardo umano, ed è come se avessi ricevuto la comunione e subito tutto è più
facile».
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