Avvenire.it, 15 marzo 2012 – èVita - Alle persone Down negato il
diritto di nascere
Il prossimo mercoledì, 21 marzo,
sarà la prima Giornata mondiale dedicata alle persone con sindrome di Down
sponsorizzata dalle Nazioni Unite. La risoluzione che ha istituito questo
appuntamento – che verrà celebrato anche al Palazzo di Vetro di New York – è
stata proposta dal Brasile e poi approvata dall’assemblea generale dell’Onu lo
scorso dicembre. È stato l’esito di un’opera di sensibilizzazione e di pressing
durata anni – è dal 2006 che la giornata si celebra in vari Paesi – a opera di
«Down Syndrome International», un’organizzazione con diramazioni in vari Paesi
e sede in Inghilterra. Un grande successo, indubbiamente, e un’iniziativa più
che meritoria che va nel senso – come spiega la charity britannica – «di
aumentare la consapevolezza e la comprensione di una condizione che riguarda
approssimativamente un nato ogni 800».
E tuttavia non mancano le ombre,
o meglio, le patenti incongruenze nell’iniziativa targata Onu. Perché il vero
pericolo per una persona con sindrome di Down oggi ha un nome molto semplice:
aborto. Quell’aborto che proprio le Nazioni Unite da decenni cercano di
depenalizzare e quindi di favorire in una miriade di forme e con molteplici
sponsorizzazioni. Difatti, nei comunicati che spiegano il senso della Giornata
di mercoledì prossimo del tema-aborto non c’è traccia. Un silenzio inquietante,
e in fondo assurdo: è necessario mobilitarsi per i diritti delle persone Down,
per il loro inserimento sociale, contro i pregiudizi e le discriminazioni, ma
solo non appena queste vengono al mondo; finché sono nel grembo materno è
invece legittimo fare di loro più o meno ciò che si vuole. Incluso eliminarle.
Ha fatto recentemente scalpore la
notizia rilanciata da Avvenire riguardo alla Danimarca, dove, secondo uno
studio, negli ultimi anni si è avuto un crollo di nascite di bambini Down, con
la previsione che entro il 2030 non ce ne sarà più nessuno. Ma le minacce nei
confronti dei nascituri Down si addensano un po’ ovunque, specie per
l’affinamento della diagnostica prenatale associata a una cultura del
"bimbo sano" e dei "diritti" dei genitori ad avere un
figlio "su misura".
Negli Stati Uniti lo scorso
autunno è stato lanciato «Maternit21», un test prenatale in grado di
evidenziare l’eventuale trisomia 21 del nascituro non più nel modo invasivo dell’amniocentesi
o dei villi coriali, ma con il semplice esame del sangue della madre. Un test
che ha suscitato polemiche accese per il pericolo di veder aumentare
ulteriormente il ricorso al cosiddetto "aborto terapeutico" per la
sindrome di Down. Del resto, in diversi Paesi anche la giurisprudenza sembra
voler dare una mano a questa tendenza.
Per limitarsi a un caso fresco,
due settimane fa a una coppia dell’Oregon (Usa) è stato riconosciuto un
risarcimento di ben 2,9 milioni di dollari. La Corte ha dato ragione a Deborah
e Ariel Levy che avevano sporto denuncia perché nella diagnosi prenatale cui la
donna si era sottoposta il medico non aveva rilevato la trisomia 21 della
piccola Kalanit. I due hanno detto di essere stati distrutti dalla scoperta
della malformazione congenita della figlia, e che, se ne fossero stati al
corrente prima, l’avrebbero abortita.
I Levy hanno tra l’altro due
figli. E chissà cosa penseranno – si è chiesto Steven Ertelt dell’agenzia
Lifenews – quando sapranno che i loro genitori hanno voluto arrivare in
tribunale, dichiarando pubblicamente che avrebbero soppresso la vita della loro
sorellina per un difetto genetico, risarciti con una montagna di denaro. Quel
che forse si può e si deve dire, tornando al 21 marzo, è che una giornata per i
diritti delle persone Down, per avere davvero un senso, deve essere un momento
per riflettere anche su questa deriva eugenetica, ben più crudele di ogni
discriminazione sociale.
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