Avvenire.it, 4 marzo 2012 - L'OSPITE - Infanticidio: nessun alibi
"logico" - L’accademia e la legge di Eugenia Roccella - Deputato del
Pdl, già sottosegretario alla Salute
Investiti da una polemica
inaspettata, Francesca Minerva e Alberto Giubilini, autori dell’articolo de The
Journal of Medical Ethics sul cosiddetto «aborto post-nascita» – l’uccisione di
neonati per gli stessi motivi per cui in gravidanza si può abortire – hanno
pubblicato sul blog della rivista una lettera in cui cercano di spiegarsi
meglio.
Espressa tutta la loro sorpresa
per il clamore suscitato, precisano che la loro non è una proposta di legge, ma
un intervento in un dibattito accademico, un «puro esercizio di logica», e si
dichiarano dispiaciuti che tante persone non ne abbiano capito il senso. Le
polemiche, insomma, sarebbero sorte perché non si è compreso il contesto
accademico del saggio. I due autori, infatti, spiegano che c’è stato anche chi
ha scritto loro ringraziandoli per aver suscitato un dibattito culturalmente
stimolante. Concludendo, i due si scusano con chi si è offeso, e si augurano
che la loro lettera «aiuti a comprendere la distinzione essenziale fra ciò che
può essere discusso in una pubblicazione accademica e ciò che potrebbe essere
legalmente permesso».
Ma uno dei nodi essenziali della
questione è proprio il modo in cui si svolge il dibattito pubblico intorno ai
temi eticamente sensibili.
Immaginiamo di proporre un
esercizio di logica, in puro linguaggio accademico, sulla misura della civiltà
di culture in cui le donne sono considerate inferiori, oppure sulla
giustificazione scientifica del razzismo, o ancora su certi negazionismi in
ambito storico. Nessuno di questi ipotetici saggi sarebbe pubblicato in riviste
accademiche: nessun progetto di ricerca, nessun dottorato sarebbe finanziato e
ammesso. Perché alcuni temi e alcuni concetti non hanno diritto di cittadinanza
nel dibattito accademico, che da sempre è la sorgente di quello pubblico.
L’accademia in realtà compie,
consapevolmente anche se non esplicitamente, una pre-selezione su base
valoriale; di certe cose si può parlare e discutere, mentre di altre non si può
e non si deve: chi prova a farlo viene immediatamente bandito dalla comunità
scientifica. Riuscire a introdurre un tema considerato tabù nel dibattito
accademico vuol dire legittimarne il contenuto, ritenerlo ammissibile. È vero
l’opposto di quel che dicono i due studiosi: di fatto, è permesso discutere
solo di ciò che può essere condivisibile, a torto o a ragione, in base al
politicamente corretto, o a motivazioni indiscutibili. L’accademia non è
neutrale, e non è vero che si può ragionare di tutto: su certe cose sì e su
altre no, perché argomentare su un tema implica in qualche modo
un’accettazione. Per questo c’è stata una protesta generalizzata nei confronti
dell’articolo: se ne parla, quindi qualcuno lo condivide, altrimenti non se ne
parlerebbe neppure. Per chiarire fino in fondo, chiedo ai due studiosi: cosa c’è
di «stimolante in senso accademico» nel discettare sull’omicidio di neonati?
Qual’è il contributo alla scienza e al dibattito bioetico di un saggio sulla
ragionevolezza dell’infanticidio? Quale il traguardo raggiunto dal «puro
esercizio di logica» proposto?
Forse il fatto che, a forza di
parlarne, alla fine farà un po’ meno effetto?
Chissà perché, dopo tanto
accademico discettare sull’omicidio di neonati disabili, si è arrivati
all’appello del Royal College of gynaecologists and obstetricians, «lasciateci
uccidere i neonati disabili», e infine al protocollo di Groeningen. La verità è
che il dibattito accademico prepara quello pubblico e crea i presupposti per un
eventuale intervento legislativo: il «puro esercizio di logica», in tanti casi,
è già diventato proposta effettiva.
Nessun commento:
Posta un commento