lunedì 19 marzo 2012


Da un padre ai figli di Franco Nembrini, 19-03-2012, http://labussolaquotidiana.it

Letture dal libro di Franco Nembrini, Di Padre in Figlio. Conversazioni sul rischio di educare (prefazione del card. Camillo Ruini, Ares, Milano 2001)

IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONE
Se è vero quel che ho cercato di dire, che i figli vengono al mondo come Dio comanda, vengono al mondo con ciò che è davvero necessario, tutto il problema dell’educazione è spostato su di noi. Il  problema dell’educazione sono gli adulti, non i ragazzi, non i bambini. Il mestiere del bambino è guardare.
Non lo sanno, non lo sanno quando hanno un anno, quando sono nel grembo materno; ma credo che fin dal grembo materno i nostri figli ci guardino, sempre, con la coda dell’occhio.

Ci guardano sempre. Sembra che facciano altro, sembra che giochino fra loro, che facciano i capricci, sembra che mangino, che dormano, che siano all’asilo, che vadano a scuola; ma l’attività vera che fanno è guardare: guardano sempre l’adulto che hanno di fronte, prima il genitore e poi mano a mano le altre figure di adulti che incontrano - cioè la maestra, gli insegnanti - e poi l’ambiente circostante. Allora capite in che senso tutto il problema è spostato su di noi: parlare di educazione è parlare di adulti, non è parlare dei bambini.

Certo, non sono così ingenuo da pensare che non abbia valore la conoscenza di una serie di dinamiche psicologiche, capisco bene che c’è da parlare anche del bambino, del suo percorso; ma l’educazione ha come protagonista, ha come soggetto attivo l’adulto, perché è lì che è puntato lo sguardo del bambino, è lì che è puntato lo sguardo dell’alunno.

Seconda premessa, dunque: la realtà non è mai veramente affermata se non è affermato il suo significato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la responsabilità dell’adulto è rispondere in qualche modo a quella domanda di bene, a quella domanda di senso, di felicità. Cioè vuol dire che l’educazione è una testimonianza; e questo ha alcune conseguenze importanti. Se è così l’educazione non è questione di discorsi, le parole in educazione sono assolutamente secondarie. Noi ci fidiamo molto dei nostri discorsi, delle nostre prediche, delle nostre raccomandazioni, e invece le parole in educazione contano pochissimo; a volte servono - raramente - per descrivere un’esperienza che si fa, ma mai la possono sostituire. L’educazione è la testimonianza di un bene che si vive.



SIAMO TUTTI PADRI PUTATIVI
L’educazione comincia quando io accolgo l’altro nel punto in cui si trova. Tutto il segreto dell’educazione, secondo me, sta in questo. Se tu hai il problema di dover cambiare i figli, i figli lo avvertono come una trappola, come una pretesa su di sé, si difendono. Quante volte ho detto: il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione; perché se è un problema per te diventa un problema per i figli. E da un problema, da una pretesa, dal sentire che l’altro gli dice: «Devi essere diverso», da questo il figlio si difende. Se invece il rapporto tra l’educatore e il figlio è: «Io ti amo così come sei, io ti affermo per quello che sei, però sto facendo questa strada, sappi che io sto andando in questa direzione, sto guardando queste cose che rendono felice me, se vuoi vieni», questo lo lascia libero; anzi, lo intriga, lo incuriosisce e magari gli viene voglia di venirti dietro.
Quando tu hai il problema di educare, psicologicamente diventa un problema insopportabile per il figlio. Tu devi avere il problema di educare te stesso e basta, ce n’è d’avanzo.

L’educazione non ha quasi bisogno di parole. O meglio, l’unica parola che ha senso nell’educazione è la risposta a una domanda che si pone, che i figli esplicitamente pongono; mai dare risposte a domande che non si pongono, che i ragazzi non avvertono come urgenti per sé.

Allora, solo la consapevolezza che siamo tutti padri putativi, solo la certezza che l’educazione è un altro nome della misericordia, stabilisce una gratuità, genera quella gratuità per cui la paternità è vera e per cui la maternità è vera. Senza questo punto di partenza la paternità e la maternità sono fonte di equivoci, di ricatti, diventano un luogo dove si riversano frustrazioni e desideri sbagliati. Solo se ci percepiamo come padri putativi, cioè come gente a cui un Altro ha affidato la vita di altri, tanto nella figliolanza naturale come in quella che nasce dall’accoglienza, solo così possiamo sperare di essere padri e madri.



NON È BENE CHE L'UOMO SIA SOLO
Quando sto davanti a mio figlio, quando penso alle stelle e al significato del mondo, questo desiderio di verità diventa subito in me, come in ogni uomo, un desiderio di bontà, voglio che la vita sia buona per me e per tutti i miei fratelli uomini.
Siamo fatti di questa volontà di bene, di questo desiderio di bene e ci alziamo ogni mattina e lavoriamo per cercare questo bene, per fare in modo che il tempo non sia inutile! È la speranza con cui ci alziamo ogni mattina, anche quando non ce ne rendiamo conto, il desiderio che il tempo non sia inutile, che la giornata sia buona, che sia utile per costruire cose buone per noi e per i nostri fratelli uomini. Non c’è altra ragione per cui possiamo avere il coraggio di mettere al mondo dei figli se non per questa speranza di bene. Dobbiamo ricordare che la natura del nostro cuore è questo desiderio di conoscere la verità, di amare il bene e costruire cose buone.

Se siamo fatti così, se siamo costituiti da questo desiderio di bene, di bontà, di bellezza, allora ci muoviamo per cercare di vivere così. Ogni azione che l’uomo realizza, il lavoro che fa, sta dentro questo solco. Questa è l’idea di «opera»: sempre l’uomo opera. Gesù ha chiamato Dio «l’eterno lavoratore», e se l’uomo partecipa della natura di Dio lavora sempre. Realizza un’opera anche la mamma che, a casa sua, si occupa umilmente dei suoi figli, e di fronte a Dio e di fronte alla storia ha la stessa dignità di un capitano d’industria. Così l’opera del politico, del prete, del lavoratore o del maestro è esattamente questo. Per questo gli uomini si uniscono: nel momento in cui cominciano un’opera sentono la necessità di essere in compagnia, una compagnia di uomini in azione che rischiano il desiderio del proprio cuore nel paragonarsi con la realtà, nel tentativo di modificarla rendendola migliore, più vicina all’immagine con cui Dio l’ha fatta.

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