sabato 17 marzo 2012


«Fine vita: l’assistenza spirituale, cura irrinunciabile» - L’85% dei malati terminali chiede  un accompagnamento personale. Per il pioniere padre Angelo Brusco  «è merito delle cure palliative. Ma accostarsi a chi sta morendo va riconosciuto come elemento della terapia» - di Francesca Lozito, Avvenire, 15 marzo 2012

Corrisponde all’85% la percentuale dei malati che chiede di essere assistito adeguatamente dal punto di vista spirituale. Il dato emerge da una ricerca condotta su un campione di pazienti oncologici in fase avanzata di malattia. Pubblicata sulla Rivista italiana di cure palliative, è stata condotta dallo psicologo dell’ospedale di Verbania Antonio Filiberti. Chiediamo un commento a questo dato rilevante ad Angelo Brusco, padre camilliano, docente di psicologia pastorale all’Istituto internazionale di teologia pastorale sanitaria «Camillianum» di Roma, tra i pionieri dell’assistenza spirituale in cure palliative. Padre Brusco, questi numeri che cosa evidenziano? In Italia non avevo ancora trovato risultati di questa ampiezza. È una percentuale che fa riflettere e che mette in risalto la positività del cammino intrapreso nel nostro Paese per inserire la dimensione spirituale nell’assistenza ai malati morenti.  Questi dati, si dice nella ricerca, non sono discordi da quelli condotti in un altro centro oncologico, quello di Aviano, in cui ben 340 pazienti avevano riferito il bisogno di una consulenza religiosa... Da questi risultati emerge che l’accompagnamento spirituale non solo va riconosciuto come legittimo, ma anche accolto quale elemento importante della terapia del malato. È un felice passo in avanti che si sta compiendo anche in Italia grazie alle Cure palliative. Non bisogna, infatti, dimenticare che Cicely Saunders, pioniera in questo settore, nelle sue ricerche ha identificato la componente spirituale del dolore, evidenziando che la cura del morente deve farsi assistenza non solo fisica, psicologica, ma anche morale, spirituale e religiosa, in relazione alla crisi provocata nel soggetto dalla prospettiva della sua morte prossima. Detto questo, bisogna però tenere conto dell’evoluzione del concetto di spiritualità che, soprattutto in seguito al processo della secolarizzazione, non coincide necessariamente con la religiosità.  È possibile, quindi, che si faccia confusione su che cos’é la spiritualità. Possiamo chiarire? Indubbiamente. Scorrendo, infatti, la letteratura è facile rendersi conto che dietro il termine spiritualità si nascondono un’infinità di concezioni differenti, talvolta anche contraddittorie. Ne consegue l’importanza di saper identificare correttamente gli elementi di una spiritualità umana, da quelli di una spiritualità religiosa e confessionale (cristiana, cattolica, musulmana, buddista…). Se è vero che ogni persona è abitata dalla spiritualità (domande sul senso della vita, scala di valori, apertura alla trascendenza…) ciò non significa che tale spiritualità si traduca sempre in termini religiosi. Soprattutto nell’attuale contesto socio-culturale. Tuttavia, è importante riconoscere questo dato comune dal quale si può partire per un cammino di crescita che, nella concezione cristiana, è frutto della sinergia tra ricerca umana e azione della grazia divina. Quando tale cammino è compiuto positivamente, il paziente non è automaticamente liberato dalle sue sofferenze e dalla morte, ma può utilizzare le risorse spirituali per affrontarle, abitato dalla speranza, dalla certezza interiore di non essere solo, ma accompagnato dal Cristo che ha fatto l’esperienza del dolore e della morte. L’accompagnatore è chiamato a essere un segno di tale presenza del Signore.  Un ulteriore studio pubblicato sulla rivista Tumori e che prende in esame sotto forma di review più di 100 studi internazionali sulla cura pastorale in corsia fa emergere la necessità che anche chi si occupa di accompagnamento spirituale, cappellani ospedalieri come laici, debbano essere adeguatamente formati a stare in équipe con gli altri medici. A lavorare costantemente in corsia. Come vede questa sollecitazione? Nei Paesi anglosassoni, come ho potuto constatare di persona durante il mio lungo soggiorno in America del Nord, soprattutto nei contesti di confessione protestante vi è una tendenza accentuata (da non assolutizzare) a professionalizzare la presenza e l’azione dell’accompagnatore spirituale attraverso una formazione adeguata e l’inserzione nelle équipe terapeutiche. In Italia, si notano tentativi di questo genere nell’ambito delle Cure palliative. Parlo di tentativi perché vi sono ancora resistenze da parte di diversi organizzatori delle Cure palliative e scarsa disponibilità da parte della comunità ecclesiale o di laici che potrebbero svolgere il compito di accompagnatori spirituali dei malati.  Quali accorgimenti si debbono tenere nell’assistenza spirituale? In poche battute, mi limito a sottolineare tre punti. Primo: l’accompagnatore (religioso o laico che sia) è chiamato a entrare in contatto con la propria spiritualità. Se questo non avviene corre il rischio di impedire al malato di aprirsi alla propria spiritualità o addirittura, per proiezione, di negare la spiritualità della persona incontrata. Secondo: incontrare il malato là dove si trova e non dove si vorrebbe che si trovasse. Si tratta di fare una diagnosi spirituale per verificare qual è la concezione della vita del paziente, in quali valori crede, quali sono le sue fonti di significato. Terzo: inserire l’accompagnamento spirituale all’interno di una forte relazionalità, cioè di una vicinanza umana, fatta di considerazione positiva, di comprensione empatica, di tenerezza. Mourir dans la tendresse è il titolo di un bel libro di un’infermiera, C. Jomain. Per il credente, tale tenerezza può diventare sacramento dell’amore del Signore.

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