L’importante è lo stile. Potete
dire e fare qualsiasi cosa ma l’aspetto cruciale è come lo dite e come lo fate.
Si può essere a favore di aborto ed eutanasia ma se si riesce a rendere
appetibile e quindi digeribile il messaggio di morte il più è fatto. Certo che
indorare questo tipo di pillole letali non è facile.
Maestro in questa disciplina di
estetica ferale è sicuramente il giornalista Corrado Augias. Il taglio perfetto
delle sue giacche a tre bottoni si riflette con adamantina purezza quando
disquisisce su tematiche di bioetica. Lo stile british riveste con eleganza
anche le tesi più ardite e scomode.
Un saggio di quest’arte di
retorica lo abbiamo avuto una manciata di giorni fa su Repubblica. Un lettore
si lamentava del fatto che l’eutanasia e i suicidi sono un fenomeno
diffusissimo ma volutamente occultato dall’ipocrisia generale e che
“l’integralismo cattolico” sta per partorire in Parlamento l’iniqua legge sul
testamento biologico, dimentico forse che quel disegno di legge ad
interpretarlo con le categorie del “cattolicesimo integrale” non ha nulla a che
vedere con Santa Romana Chiesa.
Ma al di là di questo, ecco che
il sofisticato Augias prende la palla al balzo e risponde al lettore: “Si
tratta di temi sui quali ogni serena discussione è resa ardua da chi non
accetta mediazione alcuna su principi che considera non negoziabili”. Chiaro
come una giornata d’agosto a mezzogiorno: chi ha la pretesa di affermare che le
nostre azioni devono avere un limite invalicabile – leggi: principi non negoziabili
– turba la serenità del confronto. Insomma vale più la cordialità della
discussione, la civiltà dei rapporti che la vita delle persone. Ovvio che la
regola d’ingaggio proposta da Augias non vale a parti rovesciate: forse che le
sue posizioni pro-eutanasia non sono anch’esse non negoziabili? Che faccia un
passo indietro per non minare la “serena discussione” su questi temi. Sarebbe
un gesto che ben si attaglierebbe alla sua innata cavalleria intellettuale.
Il nostro poi prosegue:
“Piergiorgio Welby chiedeva solo che si mettesse fine ad un’esistenza
‘vegetale’ per lui insopportabile. Lucio Magri è andato in Svizzera per essere
accompagnato alla morte con dignità e senza dolore. Entrambi i casi sono
condivisibili. Diversa è invece l’ipotesi dell’eutanasia vera e propria ovvero
se io chiedessi ad un medico di iniettarmi un liquido letale”. Qui sono da
rilevare due errori. Il primo: anche Magri e Welby morirono per eutanasia
attiva e non omissiva: il primo molto probabilmente con iniezione letale, il
secondo con barbiturici e stacco del respiratore. Insomma due casi in cui le
modalità attraverso cui è stata data la morte sono esattamente quelle
condannate dallo stesso Augias.
Secondo capitombolo. Augias
aborrisce l’eutanasia attiva: positivamente procuro la tua morte ad esempio
iniettandoti una sostanza letale. Benedice invece quella omissiva: non ti do
quelle cure oppure quei mezzi di sostentamento come l’acqua e il cibo che ti
permetterebbero di vivere. Ora appare evidente che entrambe le pratiche sono da
censurare perché entrambe producono il medesimo effetto: la morte. Che ti
lascio affogare con il tuo consenso – eutanasia omissiva – oppure che ti spari
sempre con il tuo consenso – eutanasia attiva – nulla cambia.
Poi Augias si sposta sul piano
sociologico-giuridico: “Il mio suicidio riguarda solo me, è l’esercizio estremo
della mia libertà sulla mia carcassa. Il coinvolgimento di un terzo…trasforma
il gesto di un individuo in un fatto sociale, quindi meritevole di attenzione
giuridica”. Innanzitutto è da appuntare che per Augias una persona malata o
afflitta da dolori fisici-morali non è più persona ma solo “carcassa”. Quasi
che la sofferenza e la malattia svuotassero dal di dentro la persona,
lasciandola senz’anima. Un guscio vuoto. In seconda battuta occorre aggiungere,
a commento di quello che scrive il nostro, che il suicidio non riguarda solo il
soggetto che si toglie la vita ma anche la comunità, dato che la vita di ogni
persona è arricchimento per tutti. Augias invece evidenzia nel suo individualismo
come minimo una mancanza di responsabilità sociale. Il tentato suicidio poi nel
nostro ordinamento non viene punito perché non serve a nulla mettere in galera
il mancato suicida.
Questa scriminante non viene
applicata a chi aiuta il suicida perché per costui non valgono le attenuanti di
ordine psicologico che invece si possono applicare all’aspirante suicida.
Dunque non c’entra nulla il “fatto sociale”. Infine il suicidio è la
contraddizione della libertà perché non ti permette di scegliere alcunché per
il futuro: è l’eutanasia dell’autodeterminazione, altro che “esercizio estremo
della mia libertà”, espressione tra l’altro romanticamente decadente. Il
suicidio invece è una vera e propria tomba della libertà.
E da ultimo un’implicita stoccata
alla Chiesa: “Così in ogni caso si dovrebbe discutere la materia, con laica
ragionevolezza, civile attenzione, senza dogmi, senza anatemi”. Ci viene da
chiedere: ma la Chiesa non discute di queste materie in tal maniera? Perché le
opinioni di Augias hanno il crisma della ragionevolezza e quelle di persone in
talare sono di per se stesse dogmatiche?
Il tentativo di estetizzare
l’eutanasia non passa solo tramite articoli di giornali vergati con augiana
raffinatezza, ma anche tramite progetti artistici. Il 20 dicembre scorso
l'associazione radicale Piero Welby e l'associazione Luca Coscioni hanno
lanciato il progetto “Ora - Sulla mia vita decido io! Per il diritto al
testamento biologico” in memoria di Piergiorgio Welby. Si tratta di un booklet
con il videoclip della canzone “Ora” ed altri contributi. Sulla copertina del
dvd c’è un breve commento da parte degli autori in cui fanno sapere che essi
appoggiano "il testamento biologico, la libertà di ricerca scientifica
sulle cellule staminali e il diritto a un fine vita scelto, consapevole e
dignitoso”. La musica al servizio dell’eutanasia. Un altro modo per indorare la
pillola. Insomma c’è chi canta e chi invece scrive con garbo che togliersi la
vita è gesto pieno di dignità.
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