Melazzini, un inno alla vita in parole e immagini di Lucia Bellaspiga -
La diagnosi di Sla, la tentazione di suicidarsi, la «scoperta» della bellezza
di esistere. Un libro e un dvd sull’esperienza di un medico e della sua
battaglia per vivere, Avvenire, 22 settembre 2011-09-22
La diagnosi di Sla mi arrivò come
una sentenza definitiva». E «il modo in cui mi venne comunicata fu per me,
medico, destruens: "Caro Melazzini, lei ha la Sclerosi laterale
amiotrofica e io mi fermo qui".
In quel momento mi scontrai con
l’impotenza della Medicina, la scienza che tanto amavo e cui pensavo di aver
dato molto...». È una delle pagine tra le tante intense di Io sono qui
(editrice San Paolo, 19,50 euro libro + dvd), il libro testimonianza scritto da
Mario Melazzini nella duplice veste di medico e malato, venduto in cofanetto
insieme all’altrettanto intenso documentario del regista Emmanuel Exitu (vedi
intervista a fianco).
È un medico e un uomo di
successo, Mario Melazzini, nel 2002, quando a 44 anni si ammala di Sla, una
terribile malattia degenerativa che man mano paralizza tutti i muscoli e si
porta via la capacità di camminare, deglutire, parlare, infine respirare. Ma ti
lascia lucido fino all’ultimo istante di vita. Melazzini reagisce nel modo più
comprensibile: «Inizialmente dissi no, volevo morire, pensai al suicidio
assistito». Il fatto è che allora «pensavo e ragionavo secondo quello che io
chiamo "il tema del benpensante"», per il quale la vita, certa vita,
non è più degna di essere vissuta.
Ascoltare Melazzini che parla,
così come «leggerlo, è un’esperienza che si augura a tutti, sani e malati.
Soprattutto sani. Di quelle che lasciano il segno. «Io non ho mai sentito dire
a dei malati che hanno provato sulla loro pelle determinate situazioni
"non voglio che mi sia fatto questo trattamento, voglio morire a tutti i costi".
Queste sono invece le esigenze dei sani, i quali pensano che trovarsi in certe situazioni
sia incompatibile con una vita degna di essere vissuta. Guardo a me stesso che
dopo la diagnosi volevo suicidarmi. E pensare che a quel tempo giravo solo con
una stampella...».
Quella che Melazzini chiama «una fortuna»,
un «valore aggiunto», è proprio la Sla che è entrata in lui e gli ha aperto gli
occhi a nuove verità.
Innanzitutto all’amore per la
vita: «Grazie alla malattia, vivo ogni giorno come uomo, come medico e come malato,
con gioia e umiltà, l’infinita bellezza dell’esistere». E poi a una diversa cognizione
del suo ruolo di medico: «L’essere stato colpito da una malattia grave e
invalidante mi permette, nella mia duplice veste di medico e di paziente, di
avere accesso a un sapere unico, cioè a quella sintesi di scienza e sofferenza
che solo da medico ammalato ho potuto portare a termine». Scopre che la
malattia inguaribile non è però incurabile, sa ora quanto l’incontro fecondo
tra la disponibilità ad ascoltare del medico e la fiducia del malato generino
la vera alleanza terapeutica.
E oggi può parlare alla prima
persona plurale ponendosi sui due fronti della barricata: «Noi medici non ci rendiamo
conto di quanto noi pazienti siamo estremamente vulnerabili nei loro confronti».
Una vulnerabilità che all’inizio lo aveva indotto a rivolgersi ad altri Paesi
europei, dove eutanasia e suicidio assistito «sono procedure depenalizzate,
oserei dire autorizzate». Se non caldeggiate. Parte la email per il Canton
Ticino. «Mi risposero quasi subito. I miei requisiti erano appropriati, quindi
accettabili. Potevo iniziare a preparare le pratiche per la mia morte...».
Una sollecitudine che raggela
Melazzini e gli fa chiedere se è davvero questo ciò che vuole. Poi la fuga in
montagna in solitudine e un bel giorno la guarigione interiore, anche grazie
alla Sla: «Può succedere che una malattia che mortifica il corpo possa essere
una vera medicina per chi deve forzatamente convivere con essa».
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