Un indebolimento anche e soprattutto per via giuridica - Famiglia
spogliata, di Giuseppe Dalla Torre, 29 aprile 2012, http://www.avvenire.it
Da anni ormai si parla di «crisi
della famiglia», e la crisi è sotto gli occhi di tutti (confermata anche dai
primi dati del nuovo censimento nazionale resi noti nei giorni scorsi). Al
capezzale dell’illustre inferma si sono avvicendati i più diversi diagnostici dei
fenomeni sociali, offrendo una pluralità di analisi non sempre coerenti tra di
loro né sempre condivisibili. Un accertamento, che fino a oggi mi pare sia in
qualche misura mancato, riguarda la visuale giuridica. Più precisamente è
mancata sin qui un’approfondita analisi dell’influsso che il diritto positivo
ha avuto sulla realtà familiare: se cioè l’ha veramente favorita o se, al
contrario, e senza alcuna precisa cattiva volontà, ha finito in qualche modo
per renderle difficile la vita.
A una prima valutazione delle
vicende sviluppatesi negli ultimi due secoli, sembrerebbe di dover giungere
alla conclusione che i legislatori civili non hanno sostanzialmente reso un
buon servizio alla famiglia, nella misura in cui l’hanno sottoposta a una
continua e progressiva spoliazione di funzioni e caratteri suoi propri.
Il processo è iniziato con lo
sradicamento dal suo essere un istituto naturale, che cioè il legislatore
positivo non può plasmare a piacimento fino a stravolgerne gli elementi
costitutivi. Poi si è progressivamente negato che fosse (anche) un luogo
economico, non solo di consumo ma pure di produzione di beni e servizi; che
avesse un ruolo solidaristico intergenerazionale (ai tempi della riforma del
diritto di famiglia del 1975, si sosteneva comunemente che la famiglia dovesse
essere liberata dai compiti assistenziali non suoi e svolti sussidiariamente in
mancanza di un intervento pubblico!); che fosse l’ambiente umano naturalmente
deputato all’integrazione sessuale e alla procreazione (si pensi alla scomparsa
dell’impedimento matrimoniale di impotenza, alla banalizzazione della
procreazione fuori del matrimonio, alla riproduzione artificiale della vita
umana); che costituisse l’istituto ordinariamente deputato all’attribuzione di
status (si pensi a certi odierni orientamenti del legislatore in tema di
filiazione o di attribuzione del cognome, che sembrano giungere fino alla
rottura delle genealogie e delle appartenenze).
Il sogno romantico è stato quello
di ridurre la famiglia al nucleo essenziale di «luogo degli affetti» come,
sempre nel 1975, si diceva icasticamente. Ma l’esclusivo riferimento ai
rapporti familiari come «vincoli affettivi» diviene fatale, sia nel caso che
con tale espressione si volessero intendere rapporti sentimentali (ma anche l’amicizia
è un rapporto "affettivo"!), sia a maggior ragione se con tale
espressione si volessero intendere, come nella cultura corrente spesso accade,
i rapporti sessuali. Perché nell’uno così come nell’altro caso si tratta di
fenomeni che ben possono sussistere fuori del matrimonio. E d’altra parte, se
si assumono come uniche finalità del matrimonio, non si vede perché non
riconoscere come famiglia anche le realtà dove, pur senza il previo matrimonio,
tali «vincoli affettivi» sussistono.
Il riconoscimento della famiglia
cosiddetta di fatto, sia eterosessuale che omosessuale, diviene a questo punto
una conseguenza logica. A ben vedere, se spogliata di tutto ciò che
unitariamente la caratterizzava, che cosa rimane della famiglia? In che senso e
in quale misura mantiene una sua identità distintiva rispetto ad altre
formazioni sociali? Che cos’è e che cosa non è famiglia? Sono interrogativi che
pesano come una rivoluzione antropologica.
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