mercoledì 14 dicembre 2011


Politiche del clima, dogmi non dimostrati di Anna Bono, 14-12-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Si è conclusa nella notte del 10 dicembre, con quasi due giorni di ritardo, la XVII Conferenza mondiale sul clima svoltasi a Durban, Sudafrica. La prosecuzione del summit oltre i termini previsti si spiega con le difficoltà di trovare, in vista della scadenza del Protocollo di Kyoto, un’intesa che tutti i 194 paesi convenuti potessero accettare sui futuri passi da compiere per ridurre le emissioni inquinanti, ritenute responsabili di un prossimo innalzamento delle temperature che certe fonti prevedono di 4°, e per far fronte ai problemi economici e sociali che il surriscaldamento globale comporterà. L’accordo infine trovato consiste in sostanza nell’impegno collettivo di avviare i lavori per elaborare un nuovo piano di salvaguardia del pianeta da adottare entro il 2015 e rendere operativo entro il 2020.

Non sembra gran cosa se si considerano le aspettative della vigilia del summit e l’urgenza di scongiurare catastrofi naturali irrimediabili. Tuttavia il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha accolto il risultato raggiunto come “un importante passo avanti nel nostro lavoro sul cambiamento climatico”. “Abbiamo fatto la storia” è stato il trionfale commento del Ministro sudafricano degli Esteri, Maite Nkoana-Mashabane, che presiedeva l’assemblea.

Più che dai termini dell’accordo raggiunto e dalle divergenze che ne hanno ritardato la sottoscrizione, chi da tempo segue la questione è rimasto sconcertato dal fatto che i delegati dei 194 stati membri delle Nazioni Unite abbiano discusso e lavorato per giorni a Durban – e per mesi durante la preparazione dell’evento – senza tener conto dei molti dubbi avanzati da autorevoli personalità scientifiche sul fenomeno del riscaldamento globale e sulla sua origine antropica, delle tante notizie allarmanti poi smentite sugli effetti già percepibili dell’aumento delle temperature, della provata alterazione di molti dati che avrebbero contraddetto le teorie sul global warming.

Limitare inquinamento e sprechi di risorse va bene e così pure dotarsi di strumenti più efficaci per far fronte ai cambiamenti climatici e per contenere i danni causati dai fenomeni naturali avversi e rimediarvi tempestivamente: cosa che l’umanità tenta di fare da sempre e per fortuna con successo crescente, almeno in certe regioni del pianeta. Ma altra cosa è dare per assolutamente certo un progressivo aumento delle temperature, al punto di finanziare già progetti come quello varato nel 2010 in America Latina per dipingere di bianco le Ande con una vernice fatta di calce, acqua e bianco d’uovo, spalmandola a mano, senza macchinari “per proteggere gli animali e mostrare rispetto verso Apu, lo spirito tutelare che abita nelle viscere di ogni montagna”. Per colorare le pareti oltre i 4.700 metri di altezza del Monte Chalon Hat, nella regione andina di Ayacucho, la Banca Mondiale ha stanziato 200.000 dollari in favore dell’organizzazione non governativa Glaciares, vincitrice del concorso bandito nel 2009 dall’agenzia ONU “100 idee per salvare il pianeta”.

Per salvare il pianeta nei prossimi anni fino al 2020, a Durban si è convenuto di creare un Fondo Verde dotato di 100 miliardi di dollari, gestito dall’ONU e destinato a paesi in via di sviluppo. Servirà a rifornirli di tecnologie atte a prevenire il riscaldamento globale e di risorse finanziarie per compensare i danni dovuti ai fenomeni climatici.

Data per certa e indiscutibile l’origine antropica del global warming, va da sé che l’onere di finanziare il Fondo Verde debba ricadere soprattutto sui paesi di più antica industrializzazione: quindi Europa e Stati Uniti. Dato che la maggior parte dei paesi sottosviluppati sono africani, il grosso dei capitali dovrebbe riversarsi ancora una volta sull’Africa: la più esposta e penalizzata – così si dice – e la più innocente, per il basso livello delle emissioni inquinanti di cui è responsabile.
Come faremo a trovare i capitali per il Fondo Verde, noi europei, apparentemente non importa a nessuno, nonostante le evidenti difficoltà economiche in cui ci troviamo. Per contro, con giusta fierezza gli africani dichiarano intanto ottime performance, con una previsione di crescita media del PIL continentale nel 2012 ben superiore al 5%. Stracolmi di minerali preziosi, corteggiati dalle potenze economiche mondiali che anelano ad assicurarsene l’acquisto, con una popolazione che sfiora appena il miliardo ed è in gran parte giovane, gli stati africani non dovrebbero prima o poi essere finalmente in grado di cavarsela da soli?

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