L'imitazione di Cristo di Mario Palmaro, 05-01-2012, http://www.labussolaquotidiana.it
Jenni è una ragazza americana
morta di tumore a 17 anni. Jennifer Michelle Lake poteva curarsi ma non l’ha
fatto perché aveva paura di provocare, anche se involontariamente, la morte del
figlio che portava in sé. Niente radioterapia, niente chemio, per proteggere il
piccolo Chad. Che infatti è nato sano come un pesce, ed è rimasto con la sua
giovane mamma per 12 giorni. Poi Jenny è morta.
Una storia straziante e
magnifica, che sta commuovendo un numero incalcolabile di persone, perché gli ultimi mesi di vita della ragazza sono
stati registrati dalla famiglia che ha creato su YouTube un canale dedicato,
Jenni's Journey, e prima una omonima pagina Facebook per cercare di sovvenire
alle sue necessità.
In un mondo che legittima
l’aborto legale, gratuito e sicuro come un diritto irrinunciabile della donna;
in un mondo che esalta la “scelta” della donna come buona in sé, a prescindere
da quale sia; in un mondo in cui abortire o far nascere è ingannevolmente
presentato come una scelta, occultando che sulla vita innocente nessuna scelta
è possibile; in un mondo simile, l’esempio di Jenni sta toccando molti cuori.
Una contraddizione che fa perfino rabbia, perché dimostra la deriva emotivista
che opprime la civiltà in cui viviamo. La stessa persona è capace di tenere
insieme ciò che non si potrebbe; e quindi, con la mente si votano leggi di
morte e si condividono opinioni e mass media ferocemente abortisti; e con il
cuore ci si commuove davanti al sacrificio estremo di una giovane mamma.
Incredibile.
«Ho fatto quello che dovevo
fare», ha sempre detto Jenni. C’è un abisso che divide questa vicenda dal mondo
in cui è capitata; un mondo nel quale si calcola che ogni anno vengano abortiti
volontariamente 40 milioni di innocenti. Un abisso infernale, se si pensa che
la quasi totalità di questi delitti vengono consumati per motivazioni
decisamente meno gravi rispetto al dilemma tragico che Jenni si è trovato
davanti: per lei si trattava di scegliere fra la sua vita e quella del figlio.
Di norma, oggigiorno si ricorre all’aborto per molto meno: per un figlio
imprevisto, perché in casa manca una stanza in più, per non intralciare le
scelte di vita e di carriera, perché si è troppo giovani, perché non è il
momento, perché mancano soldi.
La condotta di Jenni surclassa
l’atteggiamento mediamente diffuso tra i suoi coetanei o fra le donne che
potrebbero esserle, per età, madri. Jenni ha testimoniato che, se aspetti un
figlio, è normale che vuoi dargli tutta te stessa, vita compresa. Non sarà
inutile notare che nel caso specifico Jenni avrebbe potuto invocare, sotto il
profilo morale, il principio del duplice effetto; principio in base al quale si
può tollerare un male temuto, a patto di non volerlo, di non avere alternative,
di non usare questo male come mezzo per raggiungere il fine buono. Poteva
provare a curarsi, accettando il rischio della morte del figlio: non si sarebbe
trattato di un aborto volontario diretto. Ma Jenni ha voluto che la sua
condotta fosse pienamente aderente a quello che Gesù insegna: non c’è amore più
grande che dare la propria vita per i propri amici.
Del resto, la vera cultura
pro-life è questa: da un lato, riconosce la sacralità di ogni essere umano
innocente; dall’altro, sa che la vita è sacrificabile in un unico caso. E cioè,
quando per amore e liberamente qualcuno offre sé stesso per la salvezza di chi
ama. È questa, a pensarci bene, la più perfetta imitazione di Cristo.
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