L'aborto è un
lutto che va elaborato di Giulia Tanel, 16-03-2012, http://www.labussolaquotidiana.it
Cinzia Baccaglini, laureata in Psicologia clinica e di
comunità, è una delle massime esperte italiane della sindrome postaborto.
Ancora oggi sono in molti quelli che ritengono che abortire sia un evento della
vita come un altro, ma ormai moltissime ricerche scientifiche attestano il
contrario.
Anzitutto, cosa si intende con "sindrome post-aborto"?
L'espressione è stata usata per la prima volta da A.
Speckhard e V. Rue nel 1992 (Postabortion Syndrome: An Emerging Public Health
Concern, in Journal of Social Issues, 1992, 48(3): 96-119) per indicare alcune
caratteristiche delle conseguenze psichiche delle donne che avevano abortito e
che presentavano la seguente sintomatologia: l'esposizione o la diretta
partecipazione, al di là delle usuali esperienze umane, a una morte
intenzionalmente provocata e percepita come traumatica; la rivisitazione
incontrollata e negativa dell'evento di morte rappresentato dall'aborto, per
esempio attraverso ricordi improvvisi, incubi, dolore intenso e reazioni nel
giorno dell'anniversario; il sussistere di tentativi intesi ad evitare, o
addirittura negare, i propri ricordi e il dolore emotivo provato, con una
ridotta capacità di reazione nei confronti degli altri e del proprio ambiente;
l'esperienza di sintomi da accresciuta vigilanza non presenti prima
dell'aborto, incluso il senso di colpa provato in rapporto alla propria
sopravvivenza.
Nel mondo scientifico non c'è unità di vedute sul fatto che
esista una "sindrome", ossia un insieme di correlati psicopatologici
sempre uguali che ricorrono tutti insieme in qualsiasi persona dopo un aborto.
Non dovrebbero, invece, esserci problemi da parte di nessuno nel riconoscere
che a seguito di un aborto volontario vi siano importanti conseguenze psichiche
e l'onere della prova dell'opposto spetta a chi dice non esse esistano, non a
chi le cura.
Fino a ora si sono evidenziati due quadri gnoseologici che
ricorrono nella pratica clinica, che sono:
1. La "psicosi post-aborto", che insorge in maniera
eclatante subito dopo l'aborto.
Questo è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica
(sono molte le mamme che devono essere ricoverate in psichiatria a seguito di
tentati suicidi o suicidi falliti, o che tentano di rubare i bambini degli
altri, o che si presentano davanti alle scuole aspettando invano che il loro
bimbo esca...);
2. Il “disturbo post-traumatico da stress”, che insorge tra i
tre e i sei mesi successivi all'aborto e che rimane costante fino a quando
viene elaborato, o che si aggrava all'aumentare di altre esperienze
traumatiche. Non va dimenticato che il “disturbo post traumatico da stress” è
stato descritto per la prima volta ai reduci del Vietnam; esso consta di
frequenti immagini e pensieri intrusivi; di flashback o incubi ricorrenti che
fanno rivivere l'evento traumatico; di comportamenti persistenti di evitamento
di circostanze associabili al trauma (ad esempio: luoghi, attività o persone
che fanno ricordare l'evento traumatico. Nel caso di un aborto: i partner che
hanno spinto all’aborto, l'ospedale, il ginecologo...); di sintomi persistenti
di sovra-eccitamento (per esempio, irritabilità, preoccupazione, ansia,
depressione, insonnia, difficoltà di concentrazione, ecc.). A questi sintomi
possono aggiungersi conseguenze anche sul piano fisico, come palpitazioni,
inappetenza o disturbi dell'alimentazione, disturbi del sonno, ecc.
Tra le conseguenze del “disturbo post-traumatico da stress”,
non è raro l'abuso di alcol e droghe, che vengono utilizzate per cercare di
dimenticare l'evento traumatico.
L'insieme di questi sintomi e conseguenze produce effetti
negativi sulla vita quotidiana del soggetto che ne è affetto, sia sul piano
lavorativo che relazionale. Come si accennava, questo insieme di disturbi
possono insorgere subito dopo l'aborto, oppure dopo svariati anni, in quanto possono
rimanere latenti anche parecchi decenni, fino a quando un evento incrociatore
(un altro figlio morto, la morte del partner o dei genitori, la nascita di un
figlio pensato come "sostituto" del precedente, il resoconto della
vita affettiva e sessuale in menopausa, la nascita di un nipotino, eccetera) fa
"scoppiare la bomba".
3. Ecco perché molti, a mio parere giustamente, sostengono vi
sia una vera e propria “sindrome post-aborto” che sarebbe il terzo quadro
gnoseologico.
Le conseguenze psicologiche così descritte colpiscono tutte
le donne che abortiscono oppure solo alcune di esse?
Le conseguenze colpiscono tutte le donne a livello
esistenziale, ma questo avviene in maniera differente a seconda dell'età in cui
si è abortito, dal contesto percepito come più o meno responsabile, dalla
struttura di personalità, dalla vita condotta dopo l'aborto... Di certo, nella
mia esperienza professionale - e non solo - non ho mai trovato una donna che mi
abbia detto: "Sono felice di aver abortito". Una mamma sa e sente di
aver ucciso proprio figlio.
Poi è vero che si può continuare a sopravvivere ed entrare in
una logica giustificatoria di se stesse e degli altri, e questo per tanti
motivi. Certo è che molte donne giovani, nate quando la legge 194 del 1978 era
già in vigore e che si sono trovate a vivere in un contesto che ha abbassato il
grado di consapevolezza sul tema dell'aborto - ma non solo - non sanno
capacitarsi della provenienza di quel dolore senza nome che sentono, che
presenta molti sintomi diversi. Questo rende il processo di rielaborazione più
difficile.
Una cosa certa è che l'aborto è un evento che incide
profondamente sulla vita delle donne, trasversalmente e a tutti i livelli.
Le ricerche internazionali sono ormai molto esplicite
nell'attestare danni sull'autostima, le ideazioni suicidarie, il suicidio
agito, l'ansia, la depressione, l'uso di cannabinoidi, di eroina (e io
aggiungerei di psicofarmaci), la rabbia verso chi le ha portate a questa
scelta, i disturbi post-traumatici da stress e ad altre forme psicopatologiche
e psichiatriche.
Lei ha descritto diversi livelli di gravità delle conseguenze
psichiche dell'aborto volontario. Come mai si verifica l'uno o l'altro?
L'essere umano è un'unità bio-psico-sociale-spirituale e
tutto dipende da come questo insieme di fattori interagiscono. A volte sono le
memorie corporee a dare il sintomo ricorsivo, sine causa organica: mi riferisco
ad un'infertilità successiva, oppure un disturbo alimentare, o ginecologico, o
dermatologico, o neurovegetativo. A volte è il pensiero, tramite immagini,
flashbacks, pensieri intrusivi negativi – che si verificano anche in assenza di
coscienza vigile: sogni e incubi ricorsivi con lo stesso tema; bimbi che dicono
di uccidersi, o che non vogliono essere aiutati nell'attraversare fossi poiché
la mamma li affogherebbe, etc.). A volte è la socialità a manifestare dei
problemi, come può essere la repulsione per tutto ciò che riguarda i neonati, o
la visione di pance di mamme incinte. A volte, infine, è coinvolta la
dimensione spirituale, con un sentimento di rimorso della coscienza che torna
ciclicamente, in coincidenza di determinate ricorrenze: negli anniversari
dell'aborto o della presunta nascita, il giorno di Natale, eccetera. Queste
donne in genere vanno a confessarsi molte perché sono non riescono a perdonarsi
per il loro gesto.
Bisogna porre molta attenzione nell'affrontare il vissuto
dell'aborto volontario. Non è spostando la responsabilità all'esterno, verso
altri accidenti di percorso, che si riparte; anzi, il modo giusto di
approcciarsi è proprio quello di consentire alla paziente di riappropriarsi di
quello che è successo, partendo dalla responsabilità personale: tutto il resto
è “psicologia da bar”. Allo stesso modo, rendere il bimbo o il suo ricordo pari
ad un “oggetto” non fa altro che spostare da quell'enorme possibilità infinita
di fattori di resilienza che l'essere umano possiede e che vanno oltre il
materialismo. Lo stesso dicasi delle pratiche di rendere il bambino abortito
“angelo”, “energia” o altre cose di ordine spiritualista molto in voga in certa
“new age psicologese” attuale.
Da quanto ha potuto verificare nel Suo lavoro, vi sono
differenze nei disturbi psicologici in cui incorrono le donne che praticano un
aborto chirurgico rispetto a quelle che utilizzano la pillola Ru486?
Sì, ci sono differenze. Nell'aborto chirurgico, durante
l'anestesia, vi è un periodo in cui la donna non ha coscienza di ciò che
accade, a differenza del vissuto vigile, attimo dopo attimo, che è prerogativa
dell’aborto tramite la pillola RU486. Il fatto è ancora più grave in quanto,
una volta iniziato l’iter abortivo, la donna non ha più alcuna possibilità di
tornare indietro.
L'impatto emotivo della RU486 è ben descritto dalle scene
raccontate dalle donne che l’hanno utilizzata: molte di loro hanno visto
l'embrione abortito, hanno vissuto il flusso emorragico, hanno provato dolori
addominali e nausea, hanno avuto vomito e diarrea… e tutto questo in presa diretta,
fino all'espulsione dell’embrione. Una volta che questo accade le reazioni sono
molteplici: alcune donne gettano loro figlio nel water o nella spazzatura,
altre vanno a seppellirlo in cimitero di nascosto. Nell’aborto chirurgico i
sintomi non emergono subito, se non con uno scompenso psicotico, ma a distanza
di mesi o di anni. In ogni caso sono certa che la tendenza a fare pensieri di
morte su se stesse e i tentativi di mettere fine alla propria vita subiranno un
aumento e questo proprio a causa dell'aborto da RU486.
Nella sua esperienza terapeutica, ha riscontrato esservi
donne che sono rimaste vittime della “sindrome post-aborto” anche dopo aver
usato la pillola del giorno dopo? Molti, infatti, considerano questo “farmaco”
come innocuo, mentre in realtà esso è “potenzialmente abortivo”, in quanto se
vi è stata la fecondazione – cosa che nessuno saprà mai – impedisce
all'embrione di annidarsi nell'utero della donna…
La realtà della pillola del giorno interessa la tematica del
“bambino fantasma” e la dicotomia “c'era-non c'era”. Anche in questo caso si
rientra nel mondo delle memorie corporee. Il bambino fantasma diventa
persecutorio. Noi non sappiamo con certezza se quel bimbo fosse stato
concepito, ma dato che esistono fior di studi che dicono che le madri sanno di
essere incinta prima di fare il test di gravidanza – e sanno persino di quanti
bimbi! – non lo possiamo escludere. Le donne che chiedono aiuto rispetto a
questa modalità di aborto in genere hanno la certezza di essere state incinta.
In ogni caso, comunque, è sempre una sofferenza che va curata.
Le donne che ricorrono al Suo aiuto, in genere dopo quanto
tempo riescono ad elaborare il lutto dell'aborto? Vi sono anche donne che non
lo supereranno mai?
Rielaborare un aborto non è dimenticare, è far sì che una
ferita profonda diventi accompagnatoria, ossia che il figlio, o i figli, che
non sono più in vita perché sono stati volontariamente uccisi diventino una
presenza non persecutoria e fonte di sofferenza, bensì una presenza che
accompagna la vita successiva dellla donna. Non esistono ricette, o un numero
di sedute o tempi prestabiliti. Così come non esiste un metodo che si possa
utilizzare in maniera uguale con tutti. Proporre soluzioni semplici, pret a
portè, uguali per tutti nonostante il diverso funzionamento psichico, è mentire
alla gente.
Lei aiuta anche donne che sono ricorse alla fecondazione
artificiale e che hanno visto le loro aspettative cadere nel vuoto, con un
enorme perdita di embrioni umani. Potrebbe spiegarci brevemente questo aspetto?
Ci vorrebbe un lungo discorso,un’altra intervista. La sintesi
è che il vissuto di chi ricorre senza successo alla fecondazione artificiale è
uguale alle donne che praticano un aborto volontario, più vicino a quello da
RU486 che a quello chirurgico…
Nell'aborto non è coinvolta solo la donna, ma anche il padre
del bambino e gli eventuali nonni e fratelli. Potrebbe raccontarci un episodio
in cui è stato il fratellino del bambino abortito a pagare la scelta dei propri
genitori?
Spesso non si parla né della sofferenza del padre del bimbo –
che magari ha provato di tutto per convincere la propria partner a non abortire
e la cui rabbia si trasforma in impotenza -, né di quella dei nonni - che
magari inducono la figlia minore ad abortire, ma che poi nel corso della vita
si ricredono per il loro malessere e quello della figlia o che lo vengono a
scoprire molto tempo dopo quando avrebbero potuto dare una mano ma non sapevano
niente –, né di quella dei fratelli. Scendendo nello specifico, il “disturbo
post-traumatico da stress” ha caratteristiche peculiari per i bambini.
Un caso eclatante che mi è successo riguarda L. (42 anni) e
C. (38) che mi hanno chiesto una consulenza per D. (6 anni), poiché da qualche
mese il bambino aveva comportamenti strani: non oltrepassava più la linea di
mezzo della sua stanza e se veniva invitato caldamente a farlo andava in ansia,
piangeva, si agitava e urlava di non poterlo fare. Non aveva comportamenti
simili in altri ambienti, solo nella sua stanza. I genitori raccontano di aver
traslocata, di non avere particolari problemi, di andare d'accordo. Non vi era
stato nessun lutto recente di parenti, né incidenti, né altro. L’anamnesi
familiare si presentava negativa a patologie psichiatriche.
A questo punto chiesi di vedere D. Il bimbo entra nel mio
studio tranquillo: sveglio,
intelligente, simpatico. La madre racconta davanti a lui quello che la
preoccupa. A un certo punto mi dice che hanno traslocato perché non c'era abbastanza
spazio nella casa vecchia. A questo punto Diego scoppia a piangere e urla: “No,
non è vero. C'era spazio nella casa vecchia e anche in quella nuova, io ne uso
solo metà. Poteva esserci anche il mio fratellino. Non lo dovevi lasciare in
ospedale”.
A quel punto la mamma scoppia a piangere e mi racconta
dell'aborto. Dopo l’intervento il marito era andato a prenderla all'uscita
dell'ospedale con Diego e in macchina lei, piangendo, aveva detto al marito che
così, con quello che aveva fatto, Diego avrebbe avuto più spazio e più giochi.
Il bambino mi riferisce mentre diceva questo la mamma si toccava la pancia e
che lui le avrebbe impedito di abortire se non fosse stato a scuola Chissà
quante diagnosi di iperattività e di disturbi dell'attenzione con iperattività
sottendono eventi di questo tipo…
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